Great Engineers, Terrible Philosophers
Luciano Floridi, Giannis Perperidis, Alexandros Schismenos
In un mondo dove i CEO delle big tech annunciano trionfalmente che l’AI potrà presto eseguire “compiti cognitivi davvero sbalorditivi”, ci troviamo a guardare negli occhi un paradosso epistemologico: macchine che sembrano capire, ma non capiscono nulla. Siamo diventati spettatori di un grande spettacolo illusionistico. Gli ingegneri sono bravissimi con i circuiti, ma appena aprono bocca sulla coscienza umana si trasformano in apprendisti stregoni.
Luciano Floridi — filosofo della tecnologia, più caustico di un firewall sotto stress — lo dice chiaro: “Grandi ingegneri possono essere pessimi filosofi.” Non è solo una stoccata. È una diagnosi antropologica. Quello che chiamiamo oggi intelligenza artificiale non è un cervello, è un’intelligenza sintattica, un gigantesco costruttore di puzzle cieco che incastra pezzi solo perché statisticamente “sembrano” andare insieme. Il fatto che la figura finale abbia l’aspetto della Scuola di Atene è un effetto collaterale. Non un’intenzione.
Eppure, eccoci qui, sedotti dalla performance, convinti che la macchina “capisca” come noi. È un nuovo animismo siliconico: guardiamo GPT come i nostri antenati guardavano i fulmini, vedendo volti tra le nuvole, dèi nei terremoti, volontà tra le scintille.
Floridi lo smonta con l’eleganza crudele di chi conosce bene il pensiero kantiano: l’AI non possiede una semantica. Nessuna macchina “capisce” che si trova in una foresta e non in un giardino. Nessuna macchina ha un Gegenstand, un oggetto del pensiero che le si oppone, come succede con noi. Nessuna macchina racconta storie. Noi sì. E in questo narrare, spesso, ci perdiamo. Ma almeno sappiamo di esserci.
L’inganno cognitivo dell’AI è tale che persino i più acculturati tra noi faticano a distinguere tra “linguaggio” e “senso”. Un chatbot può rispondere in modo convincente, ma non possiede né contesto né mondo. È puro calcolo, algoritmo e pattern recognition. Proprio come un lavastoviglie che pulisce i piatti: fa il lavoro, ma non sa cos’è un piatto, né perché dovrebbe essere pulito.
E allora perché tutta questa fanfara? Perché dietro c’è un’industria che confonde l’imitazione con la comprensione e, soprattutto, monetizza l’equivoco. L’intelligenza artificiale, oggi, non è uno strumento di conoscenza. È uno strumento di potere. Un acceleratore di disuguaglianze epistemiche e politiche.
Floridi denuncia senza mezzi termini l’alleanza incestuosa tra accesso ai dati e produzione di AI. Amazon, Meta, Microsoft: raccolgono tutto, producono tutto, regolano niente. Sono monopolisti non solo del mercato, ma dell’immaginario. E questa mancanza di accountability, unita all’assenza di concorrenza reale, è il cuore della nuova crisi dell’identità umana.
Non è Orwell che ci attende, ma Huxley: non un futuro di sorveglianza tirannica, ma di piaceri narcotici, di AI che suggeriscono cosa guardare, chi amare, cosa mangiare. Un mondo dolcemente disumano, dove la libertà non viene repressa ma dimenticata. Un algoritmo ci conosce meglio di quanto ci conosciamo noi stessi. E ci dice: “Fidati di me, ho letto tutti i tuoi post.” Come resistere?
La risposta, per Floridi, è nel progetto europeo. Non per romanticismo continentale, ma per pragmatismo storico. Solo l’Europa, dice, ha ancora una visione sociale che trascende l’economia. Solo l’Europa può permettersi il lusso (e l’obbligo) di pianificare a lungo termine. Bruxelles, Pechino e il Vaticano: i tre poli capaci di pensare oltre il prossimo trimestre fiscale.
La tecnologia, se non incastonata in un progetto politico forte, diventa uno strumento pericoloso. La “filosofia come design concettuale” diventa allora un’urgente architettura di sopravvivenza. Serve una governance capace di coniugare il digitale e il verde, la privacy e la sostenibilità, i diritti e l’innovazione. La retorica della disruption deve cedere il passo a quella della responsabilità.
E l’idea, tipica del transumanesimo, che l’AI possa “superarci”, diventare più cosciente di noi, è per Floridi una sciocchezza da bar futurista. Non va nemmeno presa sul serio. Va derisa. Il giusto trattamento per un’idea ridicola è la risata, non il dibattito. È come mettere a confronto un astrofisico con un astrologo. Quando un’AI non riesce a capire una battuta, ma un essere umano sì, forse dovremmo smettere di temere la supremazia delle macchine e iniziare a preoccuparci della nostra passività culturale.
La vera intelligenza, sembra dirci Floridi, non è quella che produce contenuto, ma quella che capisce cosa farne. Non è quella che risponde, ma quella che domanda. E soprattutto, non è quella che calcola, ma quella che dà significato.
Un’AI potrà scrivere una poesia, ma non saprà mai perché la poesia ci fa piangere.
E allora, caro lettore ottimizzato per Google SGE, il punto non è se l’AI ci supererà. Il punto è: sapremo ancora chi siamo, quando succederà?
Perché i filosofi, oggi più che mai, non servono a spiegare il passato. Servono a disinnescare il futuro.Tools