In un’epoca dove i transistor valgono più del petrolio e i wafer hanno il peso geopolitico delle testate nucleari, la mossa di Taiwan sembra più una fiondata al cuore che una formalità amministrativa. Con un aggiornamento della Strategic High-Tech Commodities Entity List, l’Isola ha inserito Huawei Technologies e Semiconductor Manufacturing International Corp (SMIC) in una blacklist che suona più come un ultimatum al Dragone che un banale documento ministeriale.

La faccenda va letta tra le righe. Non è solo una questione di restrizioni commerciali, ma un chiaro messaggio: Taiwan si schiera con gli Stati Uniti nella guerra per la supremazia tecnologica. Nessuna neutralità svizzera, nessun “terzo polo” asiatico. Solo allineamento strategico. Tradotto: chi vuole fare affari con i chip taiwanesi – che non dimentichiamolo, rappresentano oltre il 60% della produzione globale – dovrà prima giurare fedeltà all’ordine siliconico dettato da Washington.

Huawei e SMIC, le due punte di diamante dell’ambizione tecnologica cinese, si vedono così bloccate in un vicolo sempre più angusto. Dopo le sanzioni americane, i limiti alle esportazioni di strumenti avanzati da parte dei Paesi Bassi e del Giappone, e ora la chiusura (ufficiale) del rubinetto taiwanese, il sogno dell’autonomia cinese nei semiconduttori rischia di trasformarsi in una distopia tecnologica.

Certo, le contromisure di Pechino non sono mancate. La produzione in 7nm del chip Kirin 9000S di Huawei, realizzata in collaborazione con SMIC, ha rappresentato un colpo di teatro. Il debutto del Mate 60 Pro nel 2023 ha avuto il sapore della rivincita, la beffa post-sanction. Un messaggio in codice: “possiamo farcela anche da soli”. Ma quella produzione è ancora su scala ridotta, quasi artigianale, incapace di sostenere la domanda di massa e ancora lontana dalla sofisticazione delle architetture occidentali. Non è un caso che Washington abbia reagito indagando non solo su Huawei e SMIC, ma anche su possibili complicità taiwanesi. Il sospetto: che l’Isola, pur formalmente allineata, abbia chiuso un occhio in nome del business.

La proverbiale neutralità tecnologica di Taiwan è dunque saltata, e l’inclusione nella Entity List di aziende cinesi e delle loro controllate dimostra che il patto non scritto con gli USA è ormai legge scolpita sul silicio. La situazione di Taiwan Semiconductor Manufacturing Co. (TSMC), il gigante dei chip, è emblematica: la possibilità di una multa da 1 miliardo di dollari da parte del Dipartimento del Commercio USA – per aver indirettamente contribuito alla produzione di un chip Huawei – suona come un avvertimento mafioso in chiave industriale. “Attento a dove finisce il tuo know-how”.

E qui si entra nel paradosso: la Cina, pur volendo emanciparsi, non può prescindere da Taiwan; ma Taiwan, per sopravvivere, non può più permettersi di essere ambigua. La silicon neutrality non è più sostenibile in un mondo dove i microchip definiscono il dominio militare, economico e – diciamolo – narrativo. La Taiwan del 2025 ha capito che i 7nm sono più importanti dei 7 mari, e che schierarsi equivale a sopravvivere.

Ray Wang, analista dal pragmatismo americano, lo dice senza troppi giri di parole: la mossa taiwanese non spezzerà le gambe a Huawei o SMIC, che già arrancano da tempo tra vincoli e limitazioni. È piuttosto un giro di vite simbolico, un messaggio sincronizzato con il Pentagono: chi cerca chip avanzati fuori dal recinto occidentale rischia di trovarsi solo circuiti chiusi.

Eppure, questa guerra dei semiconduttori ha anche una dimensione sotterranea, quasi psicoanalitica. C’è in gioco la narrazione di chi guida l’innovazione globale. L’America vuole proteggere la sua supremazia; la Cina vuole dimostrare di poterla sfidare. E Taiwan, in mezzo, gioca il ruolo del piccolo ma indispensabile arbitro. Che però, stavolta, ha fischiato il rigore.

Ironia della storia: Huawei, una volta cliente affezionato di fornitori taiwanesi, oggi li guarda da dietro un vetro, come un ex amante respinto. SMIC, dal canto suo, ha il peso della missione impossibile: costruire un’industria globale senza strumenti litografici all’avanguardia e con forniture dimezzate. È come cercare di vincere il Gran Premio di Formula 1 con una bicicletta truccata.

Ma la Cina ha dimostrato più volte di saper trasformare l’embargo in incentivo, il vincolo in volano. Il rischio, tutt’altro che remoto, è che da questa stretta nasca davvero una filiera parallela. Magari più lenta, ma indipendente. L’autarchia tecnologica non è più un concetto ridicolo: è una possibilità concreta, anche se dolorosa. Pechino lo sa. Washington lo teme. Taipei lo calcola.

Nel frattempo, TSMC dovrà navigare tra le onde turbolente della realpolitik, dosando trasparenza e ambiguità con la maestria di un equilibrista su wafer di silicio. Ma non potrà più fingere che la tecnologia sia neutra. Perché i chip, oggi, non sono solo componenti. Sono armi. E chi li produce, inevitabilmente, prende parte alla guerra.