Seizing Agentic AI Advantage

Un paradosso tutto nostro, di quelli raffinati. Le aziende corrono a implementare soluzioni di GenAI, ma non sanno perché. O meglio, lo sanno benissimo: perché lo fanno tutti, perché Copilot è già dentro Microsoft 365 e non serve neppure chiamare l’IT. Si attiva, funziona (più o meno), nessuno si lamenta. Gli executive possono dire di aver portato l’AI in azienda, e i dipendenti si sentono meno in colpa per usare ChatGPT sotto banco. Il 70% delle Fortune 500 ha già adottato queste soluzioni “orizzontali”. Plug-and-play, a basso attrito. Ma soprattutto, invisibili nei KPI. Questo emerge dalla analisi di QuantumBlack McKinsey.

Sì, invisibili. Perché quando tutto migliora un pochino – una mail scritta più velocemente, una sintesi di riunione generata in automatico – nessuno nota nulla. Non è abbastanza per muovere l’ago della bilancia nel quarterly report. Eppure, c’è una frenesia da AI, un’ansia diffusa da “non restare indietro”, che ha generato più Piloti che nella flotta Emirates. Il risultato? Il 90% dei casi d’uso verticali – quelli veramente strategici, con potenziale di ROI tangibile – resta nella zona grigia: quella dove le idee muoiono, inghiottite da backlog, scetticismo middle-management e mancanza cronica di skill MLOps.

Ma non è un problema tecnologico. È un problema di visione. Le aziende che si ostinano a “ottimizzare” l’esistente con AI assistita raccolgono briciole: -5/10% sui tempi di risoluzione. Chi invece ha il coraggio di reinventare processi attorno a sistemi agentici – veri collaboratori autonomi, non appendici intelligenti – inizia a toccare riduzioni di -60/90%, con l’80% degli incidenti risolti in autonomia. Non è miglioramento. È discontinuità.

Benvenuti nel Gen AI Paradox, come lo chiama QuantumBlack. Tutti parlano di intelligenza artificiale, ma nessuno ripensa davvero il proprio modello operativo per integrarla. Siamo alla fase in cui il problema non è più l’AI, ma l’organizzazione. Il fattore umano.

Già, l’umano. L’ultimo ostacolo tra noi e l’efficienza radicale. L’essere umano ha questa fastidiosa tendenza a voler decidere. A voler supervisionare. A voler “essere nel loop”. Ma gli agenti AI – quelli veri, non i chatbot scolastici – non aspettano input. Agiscono, apprendono, si adattano. E questo, per molte aziende, è un incubo più che una promessa.

Immaginate un help desk in cui un agente AI classifica ticket, suggerisce soluzioni, risolve problemi. Senza bisogno di chiedere. È ottimo per il cliente, un po’ meno per l’addetto al supporto. O per il middle manager che improvvisamente non controlla più la coda ma solo le eccezioni. Da qui nasce il problema della coabitazione umano-agente. Chi comanda? Quando l’agente si ferma? Chi ha l’ultima parola?

La risposta non è scritta nei manuali ITIL, ma nei nuovi ruoli che stanno emergendo in silenzio, come mutazioni evolutive in un ecosistema ancora instabile. L’agent orchestrator, il nuovo direttore d’orchestra che non ha musicisti ma swarm di agenti. Il human-in-the-loop designer, una figura che non programma, ma progetta la fiducia. E poi, ovviamente, il prompt engineer, specie già mitizzata che scrive formule magiche per dialogare con modelli linguistici, ma che da sola non basta più.

Il rischio più sottovalutato è l’agent sprawl: la proliferazione selvaggia di agenti non governati, non tracciati, spesso ridondanti. L’ombra lunga di uno shadow IT in salsa AI. In un mondo dove ogni dipartimento può costruire il proprio agente con due click su una piattaforma no-code, il problema non è più sviluppare, ma governare. È come lasciare che ogni team si costruisca il proprio ERP: divertente, finché non devi fare un audit.

Curiosità da boardroom: secondo alcune ricerche interne condotte da QuantumBlack, nei progetti più avanzati di automazione agentica, il maggiore ostacolo non sono i limiti dell’AI, ma l’ansia da disintermediazione del middle management. Tradotto: l’AI non fa perdere lavoro, ma senso di controllo. E questo scatena meccanismi difensivi antichi quanto l’organizzazione gerarchica.

Il futuro non è per i cauti ottimizzatori. È per i radicali rifondatori. Serve ripensare i processi da zero, chiedersi non dove possiamo mettere un agente, ma quale obiettivo possiamo affidare interamente agli agenti. È il passaggio da un mindset tool-based a uno goal-based. Da soluzioni che aiutano l’umano, ad architetture che fanno a meno dell’umano per tutto ciò che è routine.

McKinsey non lo dice esplicitamente, ma il sottotesto è chiaro: chi resta nella comfort zone dell’AI orizzontale è destinato a una lenta marginalizzazione. La GenAI non è una tecnologia da implementare. È una nuova grammatica operativa. E come ogni nuova lingua, va appresa per immersione, non per slide.

Nel frattempo, i primi pionieri iniziano a riscrivere il playbook. Alcune banche stanno usando agenti per automatizzare l’onboarding compliance in modo completamente autonomo, con una riduzione del 70% nei tempi e zero errori formali. Alcune telco stanno sperimentando agenti capaci di auto-risolvere guasti tecnici prima ancora che il cliente se ne accorga. Non è solo efficienza. È riscrittura dell’esperienza.

Per tutti gli altri, resta l’illusione del progresso. Il PowerPoint pieno di caselle AI, la demo ben confezionata, l’orgoglio di aver integrato GPT in Teams. Ma mentre la superficie si popola di chatbot e copiloti, sotto corre un altro mondo, fatto di intelligenze che imparano da sole, prendono decisioni, si parlano tra loro. E soprattutto, non aspettano il permesso per farlo.

L’era agentica non è una rivoluzione industriale. È un colpo di stato silenzioso. E come tutti i colpi di stato ben riusciti, inizia con una fase di coabitazione. Finché non ci si sveglia e si scopre che il potere è già passato di mano.