Ai ridisegna la catena del valore: meno PowerPoint, più Prompt
Marc Benioff ha fatto il primo passo con nonchalance, lanciando la bomba in un podcast: forse quest’anno non assumeremo nuovi ingegneri, grazie ai guadagni incredibili di produttività ottenuti con l’AI. L’ha detto quasi tra una risata e un sorso d’acqua minerale, come se fosse un dettaglio da nulla. Poi è arrivato Andy Jassy, CEO di Amazon, e ha fatto quello che da tempo tutti nel settore sapevano sarebbe successo, ma nessuno voleva essere il primo a dire ad alta voce: l’intelligenza artificiale non è solo una rivoluzione tecnologica, è anche e soprattutto una rivoluzione occupazionale. E inizia dentro casa.
Jassy, in un memo aziendale indirizzato a tutto lo staff, ha dichiarato con il solito tono mellifluo dei CEO digitali — be curious about AI — che l’efficienza guadagnata grazie all’uso massivo di intelligenza artificiale porterà inevitabilmente a una riduzione della forza lavoro corporate. Non nelle fabbriche, non nei magazzini, ma tra le scrivanie eleganti e i badge dorati dei knowledge workers.
Curioso, no? Per anni ci hanno venduto l’AI come uno strumento per “liberare il potenziale umano”, “valorizzare la creatività”, “potenziare la produttività”. Nessuno aveva aggiunto però che il potenziale liberato si sarebbe tradotto in una lettera HR alle 8 del mattino.
La dichiarazione di Jassy non è solo una confessione aziendale, è una dichiarazione politica. E di marketing, ovviamente. Perché il modo migliore per vendere i tuoi prodotti AI — da Bedrock ad Alexa — è dimostrare che funzionano così bene da far fuori interi team. Amazon, come Microsoft, Google e Meta, ha appena iniziato a trasformare il proprio personale in una demo vivente del potenziale dell’automazione. Le dimissioni involontarie come proof-of-concept.
L’ironia, in tutto questo, è che non ci troviamo davanti a una vera novità. Amazon ha sempre avuto il gusto per la decimazione programmata. I licenziamenti di massa del 2022 e 2023, la guerra alla burocrazia lanciata lo scorso autunno da Jassy, e un headcount che oggi è piatto come un monitor ultrawide, già raccontano di una cultura dove il surplus umano è un effetto collaterale previsto.
La differenza, ora, è narrativa. Se prima il taglio veniva giustificato con ristrutturazioni, riorganizzazioni o “priorità strategiche”, oggi c’è un colpevole nuovo, fresco, di tendenza: l’intelligenza artificiale. Ecco la vera funzione semantica dell’AI nel discorso aziendale: rendere i tagli più digeribili, più “inevitabili”, e quindi più accettabili anche per i dipendenti che restano — e per gli investitori, ovviamente.
Ma c’è un’altra verità meno comoda sotto la superficie. Sì, i tool AI come GitHub Copilot, ChatGPT e le piattaforme low-code/no-code stanno effettivamente aumentando la produttività di ingegneri, copywriter, analisti. Ma il risultato non è che questi lavoratori ora fanno “più cose in meno tempo”. Il risultato è che, avendo bisogno di meno persone per fare le stesse cose, l’azienda può tagliare. Quello che si guadagna in efficienza si perde in diversità operativa, in memoria collettiva, in ridondanza creativa.
È il classico paradosso dell’automazione: ogni avanzamento promette un mondo in cui lavoriamo meno, ma finiamo per lavorare di più per dimostrare che non siamo diventati obsoleti. E nel frattempo, si ristruttura. Non a caso, un dirigente Microsoft ha recentemente elogiato le capacità dei tool OpenAI proprio prima di… licenziare personale.
C’è poi una domanda che pochi si stanno facendo con la giusta serietà: chi sostituirà esattamente questi lavoratori? L’AI non lavora da sola, almeno non ancora. Per ogni middle manager tagliato, serve qualcuno che sappia orchestrare un sistema di agenti, prompt complessi, API interconnesse. In altre parole, non stiamo assistendo solo a una riduzione, ma a una mutazione del corpo aziendale. Il nuovo profilo ideale non è più l’analista con 10 anni di Excel sulle spalle, ma il prompt engineer, lo specialista semantico che sa fare surf sui transformer.
È l’emersione di un nuovo clero digitale, selezionato non per seniority, ma per affinità tecnica con l’infrastruttura stessa. Chi sa parlare all’AI sopravvive. Gli altri diventano note a piè pagina nei memo di Jassy.
Intanto, nel mondo reale, fuori da Seattle e San Francisco, c’è un’intera classe media digitale che sta iniziando a percepire il cigolio della sedia come un suono minaccioso. L’AI doveva essere un copilota, non un pilota automatico che ti butta giù dal jet.
Naturalmente, tutto questo non impedirà alle grandi aziende di spendere miliardi in capex AI & cloud. Anzi. Ogni euro investito deve mostrare un ritorno. E il modo più diretto per dimostrarlo è: guarda quanti stipendi abbiamo eliminato. È il trionfo del modello “do more with less”, dove il less non è mai il datacenter.
“Essere curiosi sull’AI”, scrive Jassy, suona quasi come “impara a costruire la gabbia prima che la usino per te”. E in effetti la curiosità, oggi, è l’ultima difesa dei colletti bianchi: imparare, adattarsi, mutare. Oppure iniziare a scrivere anche loro podcast in cui ammettono, con un sorriso amaro, che forse non serve più assumere ingegneri. O giornalisti. O strategist. O chiunque non sia in grado di automatizzare sé stesso.
Tanto, tra poco, sarà l’AI a scrivere anche i memo di licenziamento.