C’è un tipo particolare di ossessione che nasce solo a Silicon Valley. Quella di Elon Musk non è più nemmeno originale: creare un dio digitale, una macchina che pensa meglio dell’uomo. E come tutte le religioni nascenti, anche questa costa. Tanto. Così tanto da sembrare assurdo persino per i parametri fuori scala dell’industria tech. xAI, la start-up del Musk più messianico, non ha ancora in tasca i 9,3 miliardi di dollari che vuole raccogliere, ma già sa che brucerà più della metà nei prossimi tre mesi. Il fuoco dell’IA, si sa, ha bisogno di molta legna, e qui si parla di montagne di chip e server.
L’intelligenza artificiale, parola chiave della nostra era, ha una sola certezza: spende più di quanto guadagna. E se xAI fosse un adolescente, sarebbe uno di quelli che firma contratti milionari per suonare in un garage. Le stime parlano di 13 miliardi di dollari bruciati solo nel 2025, un miliardo al mese, come se stampassero soldi da buttare nel camino. Un flusso di cassa negativo che neanche un hedge fund di quelli impazziti ai tempi di Lehman Brothers.
Dietro questa emorragia c’è una ragione apparentemente nobile: Grok, l’alter ego digitale che Musk vuole mettere in competizione con ChatGPT, deve essere addestrato. E addestrare un modello avanzato richiede GPU rare come pepite nel Klondike, data center degni di una centrale nucleare e una quantità di elettricità che farebbe felice un’oligarchia energetica. Il Carlyle Group stima che, entro il 2030, l’umanità spenderà oltre 1.800 miliardi di dollari per costruire la cattedrale di silicio dell’AI. Un culto, appunto. Molto costoso.
La concorrenza? Ferocissima. E sì, OpenAI prevede di incassare 12,7 miliardi quest’anno. xAI? Cinquecento milioni. Musk promette due miliardi nel 2026, ma resta comunque come uno che vuole sfidare Amazon partendo da un chiosco al mercato. Sembra la storia di Tesla, versione 2017, quando per produrre la Model 3 Musk stava finendo i soldi e dormiva in fabbrica. O quella di SpaceX, che ha perso miliardi per anni prima di far atterrare un razzo intero. Musk è abituato a perdere soldi prima di cambiare il mondo. Ma stavolta, il conto è più alto.
La scommessa, però, non è del tutto folle. xAI non affitta infrastrutture come gli altri: se le compra. I chip? Se li è già procurati tramite X, l’ex Twitter, che Musk ha trasformato in una riserva di dati freschi su cui addestrare Grok, evitando di pagare per dataset esterni. È come se un contadino decidesse di comprarsi la pioggia, ma almeno non deve più aspettare il meteo.
L’effetto Musk, va detto, funziona ancora: da fine 2024 a marzo 2025, la valutazione di xAI è passata da 51 a 80 miliardi di dollari. Andreessen Horowitz, Sequoia, VY Capital… tutti in fila. Anche se per qualcuno questa sembra più una Tesla spirituale che una startup razionale. E forse è proprio questo il punto: Musk vende una visione, più che una roadmap. E una visione, quando è ben raccontata, vale più di un bilancio in pareggio.
Certo, per ora xAI è costretta a inseguire i soldi più velocemente di quanto l’AI impari a distinguere un cane da un lupo. Dei 14 miliardi raccolti in equity finora, ne restavano solo 4 all’inizio del primo trimestre 2025, e anche questi destinati a sparire. È già in corso una nuova raccolta da 4,3 miliardi, e per il prossimo anno altri 6,4 miliardi sono in cantiere. Morgan Stanley nel frattempo lavora per raccogliere 5 miliardi in debito, destinati a costruire data center – i nuovi monasteri della fede computazionale.
C’è chi dice che alcuni investitori inizialmente fossero scettici, ma sono bastati un po’ di aggiustamenti ai termini e qualche promessa in più per farli rientrare nel gregge. Musk, del resto, ha il potere di trasformare la scarsità in mito, il ritardo in attesa messianica.
Curiosamente, la profittabilità è attesa per il 2027. Più ottimista rispetto ad OpenAI, che prevede di essere cash flow positivo solo due anni dopo. Una competizione tra profeti, insomma. Ma anche una corsa a chi finisce i soldi con più stile.
Ironia della sorte, mentre Musk cerca di dare alla macchina una coscienza, la sua relazione con Trump implode sotto il peso di una banale critica fiscale. La politica – quel teatro di potere che l’AI non capisce ancora – rimane l’ultima arena dove Musk deve ancora vincere. Per ora, ha solo la simpatia di un gruppo di capitalisti adrenalinici e la speranza che Grok diventi qualcosa di più di un chatbot esuberante.
xAI è, in fondo, una parabola postmoderna: una compagnia senza modello di business stabile, che vuole costruire un’intelligenza capace di superare l’uomo, finanziata da investitori che sperano che il futuro abbia la faccia di Musk e la voce di un algoritmo ben addestrato.
E se non altro, anche se tutto dovesse andare in fumo, Musk potrà sempre dire di aver provato a insegnare a una macchina a pensare. O a sognare, nel caso servisse una scusa per la prossima raccolta fondi.
Ma come scrisse una volta Kurt Vonnegut: “We are what we pretend to be, so we must be careful about what we pretend to be.” xAI finge di essere il futuro. E se ci crediamo abbastanza, potrebbe diventarlo. Anche a costo di altri dieci miliardi.