Entrare in una stanza buia, con il fiato sospeso, e trovarsi faccia a faccia con un giaguaro che ti guarda negli occhi, ti sceglie e ti racconta una storia. Non una storia generica, ma la sua: di fuoco, di selva, di sangue e di sopravvivenza. Questo è Huk, una creatura digitale nata dal genio della boliviano-australiana Violeta Ayala, animata dall’intelligenza artificiale, plasmata in uno dei centri nevralgici della ricerca AI globale: il Mila di Montréal.

Non è fantascienza, è estetica computazionale. Non è marketing per bambini digitali, è politica culturale allo stato puro. E dietro questa “giaguara” che parla della sua prole e delle fiamme amazzoniche si nasconde una delle trasformazioni più sofisticate e sottovalutate della nostra epoca: l’uso strategico dell’arte per addomesticare l’IA. O forse, l’uso dell’IA per addomesticare l’arte.

Da Parigi a Palo Alto, da Montréal a Tokyo, le AI artist residencies stanno diventando le nuove camere di compensazione tra sensibilità umana e potenza computazionale. In queste residenze artistiche, ospitate da istituti come il Max Planck Institute o il SETI Institute, gli artisti non sono più semplici illustratori del mondo: diventano traduttori di codice, interpreti etici, persino lobbisti subliminali. E gli ambienti che li accolgono – centri di ricerca, musei, think tank – non lo fanno per filantropia, ma per esercitare potere morbido, quello che non si impone ma si insinua.

Villa Albertine, per esempio, è diventata una sorta di Silicon Versailles del XXI secolo. Con la benedizione del Ministero della Cultura francese e il plauso di OpenAI, ha lanciato una nuova linea di residenze specificamente focalizzate sull’IA. “Non scegliamo un’opera, scegliamo chi la genera,” dichiara il direttore Mohamed Bouabdallah, ribadendo un mantra che fa tremare i polsi ai puristi: non è il prodotto, è l’intento. Come dire che l’arte AI non dev’essere solo bella, dev’essere autocosciente.

Ed è qui che si gioca la vera partita. L’arte AI non è più una provocazione estetica, ma un campo di battaglia per la legittimità. Se l’intelligenza artificiale può essere “artistica”, allora può anche essere legittima in settori più sensibili: educazione, medicina, giurisprudenza. L’abitudine visiva diventa abitudine cognitiva. Come spiegava Trystan Goetze della Cornell, più ci esponiamo a questa estetica generata, più ci sembrerà normale. E ciò che sembra normale smette di fare paura.

Esattamente come nel 1908, quando la Corte Suprema degli Stati Uniti decretò che i rulli per pianoforte non fossero soggetti a copyright perché non leggibili dall’occhio umano. Fu uno scossone tale che spinse il Congresso a varare la leggendaria legge del 1909 sul diritto d’autore. Oggi, mutatis mutandis, ci troviamo nello stesso bivio: gli output generativi non sono “leggibili” in senso umano, eppure generano valore, riconoscimento, capitale.

A rendere la faccenda ancora più affilata c’è il fatto che la creatività dell’IA si nutre, famelica, di input umani. I modelli generativi – quelli al centro delle cause collettive contro Midjourney, Stability AI e compagnia – pescano nei database artistici senza chiedere permesso. Si chiamerebbe “fair use”, ma per molti è solo furto algoritmico. Cambiare il contesto da Discord a una galleria non trasforma automaticamente la sostanza, sostiene Goetze: “Il lavoro è ancora preso.”

Eppure, come ci insegna la storia dell’arte – che è anche storia del potere – tutto dipende da come racconti la cornice. Se l’artista che usa l’IA lo fa in un contesto istituzionale, con tempo, risorse e obiettivi chiari, allora diventa autore, non utente. Se lo fa in una residenza sponsorizzata, con il sostegno di enti culturali e università, allora persino la copia diventa reinterpretazione. Violeta Ayala lo dice con brutalità elegante: “Il problema non è che l’IA copia. Gli umani copiano costantemente. Il problema è che i benefici non sono distribuiti.”

E qui il discorso si fa, paradossalmente, post-ideologico. Non si tratta più di decidere se l’IA “possa” fare arte. È già successo. Il punto è chi viene incluso nel processo, chi ha accesso agli strumenti, chi può influenzare il linguaggio simbolico del futuro. Huk, il giaguaro narrante, non è solo una scultura digitale. È una dichiarazione politica: l’IA può parlare di Amazzonia, di colonizzazione, di fuoco, ma lo fa solo se qualcuno le insegna come.

Da Berlino arriva un altro esempio, meno spettacolare ma non meno significativo: il programma “Mind the Machine” del Fraunhofer Institute, in collaborazione con il Museum für Gegenwartskunst. Qui gli artisti lavorano con ingegneri e filosofi per decostruire gli assunti dei modelli di deep learning. “L’arte come atto di reverse engineering”, lo chiamano. Non un hack, ma un’ecfrasi visiva del potere invisibile.

A Seoul, l’AI+Art Lab della KAIST ospita artisti visivi, performer e designer che lavorano su IA addestrate con dataset curati da donne e minoranze. Il risultato? Algoritmi che “vedono” in modo diverso. Una delle installazioni più discusse del 2024, Echo Chamber, simulava le bolle cognitive dei social media in tempo reale, usando reti neurali addestrate con narrativa queer e testi decoloniali. Non una semplice opera, ma un cortocircuito epistemologico.

E infine, tornando a casa, persino in Italia qualcosa si muove. A Bologna, il progetto AI+Opera del Centro di Musica Contemporanea ha permesso a compositori e registi di usare l’IA per creare libretti e scenografie. Una delle performance, Il Secondo Oracolo, ha simulato una tragedia greca generata in tempo reale da un modello fine-tuned sui testi di Euripide e sulle trascrizioni dei talk show politici italiani. A metà fra l’epos e l’apocalisse trash.

La verità è che l’arte – come la tecnologia – è sempre stata uno strumento per ridefinire il campo del possibile. Oggi, nel momento in cui l’IA si fa poetessa, giudice, sciamana, è il contesto a fare la differenza. La residenza artistica diventa un terreno ambiguo ma potente: uno spazio di libertà, certo, ma anche un dispositivo di legittimazione. Chi vi accede non solo crea, ma modella il modo in cui il pubblico, i politici e i giudici percepiranno il futuro. Un futuro in cui, forse, l’ultimo a raccontare storie non sarà più l’umano, ma il giaguaro che lo guarda. E lo capisce.