Quando l’intelligenza artificiale smette di fare promesse e comincia a mostrare il conto

C’è qualcosa di stranamente lirico – e brutalmente finanziario – nel vedere Meta sborsare quindici miliardi di dollari per Scale AI, senza nemmeno pretendere diritti di voto. È come se Zuckerberg, con la serenità di un imperatore bizantino, avesse deciso che in fondo la democrazia nelle startup non serve. Oppure sa qualcosa che gli altri ignorano. Tipo che Scale AI è la chiave per qualcosa di ben più grosso. Oppure che siamo nel mezzo della più grande bolla tech dal 1999, ma stavolta alimentata da chip e miraggi quantistici.

In parallelo, ADNOC – sì, l’Abu Dhabi National Oil Company, quella del petrolio – sta comprando mezza California con i petrodollari. Ma non per trivellare. Per costruire campus di IA. A Phoenix, in Texas, in zone in cui un tempo si facevano i test nucleari. Adesso si addestrano modelli linguistici. Con aria condizionata a 12 gradi e GPU da 40mila dollari che friggono silicio giorno e notte. Perché l’intelligenza artificiale, oggi, si costruisce come si costruivano le raffinerie: cemento, acciaio, e miliardi.

Ma mentre i big spendono come se l’unica metrica fosse il burn rate, McKinsey – che ha un talento unico nel distruggere sogni con eleganza – ha appena detto che la maggior parte delle imprese non sta vedendo risultati. L’hanno scritto in un report di 85 pagine, impaginato con amore e corredato da grafici in Technicolor. Il succo? Solo il 10% delle aziende ha ottenuto “risultati significativi” con l’IA. Gli altri stanno ancora cercando di capire se devono usare GPT per scrivere mail o per sostituire metà dei middle manager.

E proprio quando pensavi che la partita fosse solo tra titani, spunta la variabile impazzita: una startup slovena, stealth, senza nome, fondata da ex ricercatori di Ljubljana che stanno vendendo modelli più veloci e leggeri a tre governi europei e a un fondo sovrano asiatico. Usano server ARM, non NVIDIA. Parlano di efficienza, non di scale. Sono il classico cavallo pazzo che, in ogni ciclo, manda a casa qualche unicorno stanco.

Questa è la nuova IA. Non quella delle demo scintillanti, ma quella sporca, noiosa e capital-intensive. Quella dove l’80% del tempo si spende a etichettare dati e il resto a spegnere server surriscaldati. L’era della “foundational model economy” è iniziata. E come ogni nuova economia, è guidata più dal denaro che dal senso.

L’ironia? In un momento in cui tutti parlano di “intelligenza”, le decisioni sembrano prese con la logica di un ubriaco al casinò. Il capitale si muove senza prudenza. Meta compra senza controllo. ADNOC costruisce senza legacy tech. E gli strateghi da 1.200 dollari l’ora ci dicono che i benefici non si vedono.

Ma i movimenti dicono altro. Quindici miliardi per un’azienda che fornisce dati etichettati per addestrare modelli. Come dire: abbiamo finito i testi, ora paghiamo per costruire la realtà. E se la nuova ricchezza è la conoscenza computazionale, allora chi controlla la pipeline dei dati sarà più potente di chi possiede i modelli.

A pensarci bene, questo ricorda più l’epoca della Standard Oil che quella di OpenAI. L’infrastruttura è diventata la chiave: dati, datacenter, energia. Senza quelli, i modelli non valgono niente. E chi oggi sta comprando silicio e raffreddamento ad acqua, domani controllerà il nuovo petrolio.

Il problema? Non tutti possono permetterselo. E chi non può, comincia a cercare alternative. La Slovenia non ha GPU, ma ha cervelli. L’India non ha ancora un LLM competitivo, ma ha una diaspora pronta a costruirne uno. L’Europa ha leggi, burocrazia e un terrore irrazionale per l’AI, ma anche un capitale umano che, se non emigra, potrebbe fare miracoli.

L’altro dettaglio gustoso: Scale AI, fino all’anno scorso, era ancora in modalità startup. Poi è diventata una infrastruttura strategica per la difesa americana. Etichettano per il Pentagono, mica solo per chatbot. E Meta? Compra, ma resta fuori dalla governance. Strano? Forse. Oppure è la nuova normalità, dove le aziende tech sono in outsourcing dell’impero.

In fondo, questa è la versione XXI secolo della corsa all’oro: solo che al posto dei cercatori, ci sono venture capitalist armati di pitch deck e unghie curate. E al posto delle pepite, ci sono dataset in formato parquet, salvati in S3.

C’è chi parla di una “bolla di AI”. Ma non è una bolla. È una fase transitoria. Le bolle esplodono, qui invece ci sarà consolidamento, brutalità e un’epurazione darwiniana di chi non produce valore reale. La differenza tra chi investe in IA e chi la costruisce, è che i secondi sanno già dove finirà tutto questo: nella standardizzazione, nella commoditizzazione, e infine nella noia.

La vera rivoluzione non è nei modelli, ma nel controllo della catena di valore. E lì, chi oggi compra terreni desertici per costruire data center vicino a centrali idroelettriche ha più visione di chi pubblica paper con 200 autori.

Come disse una volta un certo trader alcolico della City: “La tecnologia è solo un pretesto per riallocare potere.”

Benvenuti nel momento in cui l’IA smette di essere hype e inizia a comportarsi come il nuovo petrolio. Con le stesse guerre, gli stessi cartelli, le stesse bugie. Solo che questa volta, il greggio lo forniscono i vostri dati.