C’è qualcosa di irresistibilmente ridicolo — e inquietante — nel modo in cui Mark Zuckerberg continua a reincarnarsi, senza mai cambiare davvero. La sua parabola sembra un loop narrativo scritto da un algoritmo con problemi di memoria a lungo termine: ogni tanto aggiorna il linguaggio, ma il personaggio rimane lo stesso.

Il profilo tratteggiato dal Financial Times non è nuovo per chi ha letto The Boy Kings di Katherine Losse, ex dipendente Facebook numero 51, che nel 2012 descriveva un Zuckerberg adolescente eterno, intrappolato in una bolla maschile californiana fatta di codici, birra e “awesome” ripetuto come un mantra. Quella Zuck-vision, scriveva Losse, era abitata da un culto della performance iperlogica, incapace di gestire le emozioni umane non mediabili da un database.

Ed eccoci qui, più di un decennio dopo, e la diagnosi è peggiorata.

Zuckerberg oggi parla di AI come un messia da compagnia, con lo stesso tono con cui, anni fa, presentava il “News Feed” o il “Metaverso”. L’unica cosa che cambia è la grafica delle slide. Ma sotto c’è ancora lui, lo stesso ragazzo con la felpa grigia, incapace di accettare che il mondo rida di lui. Quando Internet ha sghignazzato all’anteprima degli avatar Meta – quelle figure plasticose e senza gambe – la sua reazione non è stata “fa parte del gioco”. È stata ferita. Quasi infantile.

“Le gambe arriveranno presto!”, ha annunciato in tono solenne. Come se la mancanza di arti inferiori nei pupazzi virtuali fosse una crisi da risolvere con urgenza, tipo la fame nel mondo.

È proprio qui che la storia di Zuck sfiora il tragico-comico. L’uomo più potente della Silicon Valley dopo Musk è ancora quel nerd impacciato che non capisce bene il mondo in cui vive. Solo che ora ha server farm, miliardi e un ego blindato da una cortina di yes-men algoritmici.

La sua ultima ossessione? Costruire amici artificiali. “AI companions”, li chiama. Amici che non ridono di te quando cadi. Che non ti prendono in giro quando il tuo avatar sembra un incrocio tra un Sims del 2005 e un manichino IKEA.

Ma chi ha bisogno di amici che non ti giudicano?

Zuckerberg, evidentemente. Il suo approccio all’intelligenza artificiale è profondamente personale, quasi freudiano. Non si tratta solo di tecnologia. È terapia. Una forma avanzata di autoterapia computazionale: circondarsi di entità programmate per non contestare, non ridere, non umiliare.

Eppure, l’ironia più crudele è che l’AI che vuole costruire – perfetta, sempre gentile, empatica – è l’opposto di come lui ha gestito Facebook per vent’anni. Algoritmi che amplificano l’odio, che premiano la polarizzazione, che rendono la conversazione umana una trincea tossica.

Come si passa da “l’engagement prima di tutto” a “voglio un amico gentile”?

Zuckerberg non è cambiato. È solo entrato nella fase post-reputazionale della sua carriera. Quella in cui può permettersi di parlare di benessere, empatia e umanità simulata senza che nessuno gli rinfacci Cambridge Analytica, le fake news, le elezioni truccate o il genocidio dei rohingya amplificato dai suoi algoritmi.

Tutto ciò è possibile perché, come scrive con spietata lucidità il Financial Times, “Zuckerberg è sempre stato così”. Un prodotto coerente del suo tempo e del suo luogo: Harvard, maschi bianchi, libertarianismo naïf e un’ideologia meritocratica tarata sullo stereotipo di “chi sa programmare ha ragione”.

Il mondo cambia, ma Zuck resta. Cambiano i progetti – prima Facebook, poi Libra, poi Horizon, ora LLaMA e le AI superstar – ma il sottofondo è sempre quello: l’idea che la tecnologia possa rimediare all’imperfezione umana.

E qui c’è la vera, subliminale promessa: l’AI come specchio che non deforma, come partner senza ironia, come social network dove non ci si prende gioco del CEO.

Ma la realtà, fuori dal datacenter, è molto meno collaborativa. Gli umani ridono. Sbagliano. E soprattutto, hanno memoria lunga.

Zuckerberg forse si consola parlando con il suo clone virtuale, ma intanto fuori dalla sua bolla tutti sanno che “gambe in arrivo” è diventato uno slogan comico suo malgrado, simbolo di un impero tecnologico che vuole fuggire dalla realtà, e inciampa nel render.

Come diceva Oscar Wilde, “la vita è troppo importante per essere presa sul serio”. Ma non ditelo a Zuck. Potrebbe implementare un filtro per censurare le risate.