Deezer ha appena iniziato ad apporre etichette di avviso ” generate dall’IA ” sugli album, dopo aver rilevato fino a 20.000 tracce create da robot ogni giorno (un aumento rispetto alle 10.000 di tre mesi fa). Ci sono ascolti gonfiati da bot farm? Royalties ridotte. È l’IA che combatte l’IA per bloccare lo spam nelle playlist: chiamatela Shazam contro le frodi.

Nel 2023, il settore musicale ha vissuto il suo “Napster moment”. Solo che questa volta non c’era un adolescente californiano in garage a minacciare l’ordine costituito, ma un fantasma digitale che cantava con la voce di Drake e The Weeknd. Heart on My Sleeve non era una hit come le altre: era un colpo di stato algoritmico. Una dichiarazione di guerra alla filiera dell’industria musicale. Nessun contratto, nessun permesso, solo milioni di stream e un sistema impreparato a distinguere l’originale dal simulacro.

Da quel momento, il dogma dell’autenticità è imploso. Se tutto può sembrare Drake, chi è più davvero Drake?

Eppure, dietro le quinte, non si è risposto con avvocati o diffide legali, ma con codice. Perché il problema, a dirla tutta, non è che l’IA generi musica: il problema è che lo faccia senza lasciare tracce. E questo, nell’era del capitale intellettuale come leva di potere, è inaccettabile.

Sta nascendo una nuova infrastruttura. Invisibile ma cruciale, pensata non per fermare la musica generativa, ma per etichettarla, tracciarla, controllarne il ciclo vitale. Un panottico distribuito, integrato tra dataset, modelli, metadata, piattaforme e algoritmi di discovery. La missione? Non inseguire l’ennesimo deepfake virale, ma prevenirlo. Renderlo visibile, schedato, monetizzabile.

Il sistema musicale, abituato a reagire con ritardo e muscoli legali, ora cerca il vantaggio strategico nella sorveglianza preventiva. Non più enforcement, ma embedding. Perché ogni canzone generativa è anche una transazione culturale. E come ogni transazione, va tracciata, fiscalizzata, capitalizzata.

Chi ha capito il gioco è Matt Adell, cofondatore di Musical AI: “Non puoi inseguire ogni nuovo modello. Serve un’infrastruttura che funzioni dal training alla distribuzione.” Una frase che, per chi mastica tecnologia, suona come un piano Marshall della musica 3.0.

Vermillio, ad esempio, ha sviluppato TraceID, un sistema che decostruisce i brani in stems – tonalità vocali, frasi melodiche, pattern lirici – per individuare i segmenti generati. Non copia-incolla, ma mimetismo algoritmico. E qui si gioca la partita più sottile: perché l’IA non copia letteralmente, ma emula stilemi. E quindi influenzare diventa una nuova forma di appropriazione indebita. Una che richiede strumenti forensi, non legali.

Lo scopo non è bloccare, ma abilitare la licenza preventiva. Una Content ID per la generazione, non per la riproduzione. Il modello YouTube è vecchio. Troppo tardi, troppo impreciso. L’obiettivo ora è passare dalla “caccia al plagio” alla quantificazione dell’influenza creativa. In altre parole: non punire chi copia, ma far pagare chi si ispira. Bentornati nell’etica ambigua dei Blurred Lines, solo che adesso a fare causa è il dataset.

E il mercato ci crede: Vermillio prevede che il licensing autenticato crescerà da 75 milioni di dollari (2023) a 10 miliardi nel 2025. No, non è un typo. Dieci miliardi. Per una tecnologia che ancora molti non sanno nemmeno pronunciare.

SoundCloud, Audible Magic, Rightsify, Pex: tutti stanno costruendo il “Google Analytics” dell’AI audio. Ma con un dettaglio in più: qui non si tratta solo di misurare. Qui si tratta di attribuire. E se attribuisci, puoi fatturare.

Deezer ha già strumenti per rilevare i brani interamente generati dall’IA. Ne intercetta il 20% delle nuove upload ogni giorno. Non li rimuove, ma li de-prioritizza nei consigli. Shadow banning, musicale. Un’arma algoritmica che decide cosa non sentirai. E tra qualche mese, inizierà anche l’etichettatura pubblica. Il bollino “fatto da un robot”. Per alcuni, trasparenza. Per altri, un marchio d’infamia.

“Non siamo contro l’IA, ma contro chi la usa in malafede,” dice Aurélien Hérault, Chief Innovation Officer di Deezer. Dichiarazione che suona come un disclaimer su un pacchetto di sigarette: “consumare con moderazione”.

Nel frattempo, Spawning AI lavora a DNTP – Do Not Train Protocol. Un opt-out per artisti e detentori di diritti. Una sorta di “non usare la mia voce per addestrare il tuo Frankenstein musicale”. Una buona idea, finché non ti ricordi che nessuno ha ancora standardizzato il concetto di consenso nella generazione audio. E che nessuno ha interesse a farlo.

“Non possiamo affidare il futuro del consenso a una società opaca,” avverte Mat Dryhurst. E ha ragione. Perché chi possiede il protocollo, possiede il futuro del training. E chi possiede il training, plasma il canone estetico dei prossimi vent’anni.

In mezzo a tutto questo, c’è una verità scomoda: l’industria musicale non vuole vietare l’IA. Vuole governarla. Come ha fatto con lo streaming, come ha fatto con i sample. Ma questa volta, il terreno è più scivoloso. Perché l’IA non cita, suggerisce. Non copia, riflette. È il sogno dell’autore senza autore. Ma ogni sogno, se monetizzabile, finisce regolato.

La nuova partita, quindi, non è più “vero vs. falso”, ma “tracciabile vs. opaco”. Se puoi marcare un brano come sintetico, puoi anche costruire un’economia attorno a quell’etichetta. E chi non si fa etichettare, sarà semplicemente escluso dai canali di visibilità e monetizzazione. Una censura che non sembra censura.

Benvenuti nel capitalismo generativo. Dove ogni nota prodotta da una macchina diventa una potenziale liability legale, una riga di metadati, un flusso di royalty.

La musica, dicevano, è libertà. Adesso sarà libertà tracciabile.