Ci siamo. È successo. Come in un romanzo scritto da un’intelligenza artificiale sotto psicofarmaci, la guerra in Medio Oriente è appena entrata nel suo nuovo atto. Gli Stati Uniti hanno colpito direttamente l’Iran. E non con sanzioni, tweet furiosi o cyberattacchi soft, ma con fuoco e acciaio. Con armi, missili e dichiarazioni da manuale neocon: “completamente e pienamente obliterati”. Tre siti nucleari iraniani sono stati ridotti in cenere, secondo il Presidente Donald Trump, ormai sempre più simile a una figura da simulazione geopolitica in tempo reale che a un leader istituzionale.

Il nome di Pete Hegseth, ex conduttore Fox News promosso a Segretario della Difesa, non è una parentesi folkloristica ma una chiave di lettura. L’intero evento è il frutto maturo di anni di spettacolarizzazione del conflitto, dove ogni decisione militare è anche uno spin narrativo, un colpo di scena in diretta streaming. “Devastato il programma nucleare iraniano, senza colpire truppe o civili”, ha detto Hegseth. Una dichiarazione chirurgica, quasi progettata da un prompt ottimizzato per l’indicizzazione su Google News.

E intanto il mondo trattiene il respiro, consapevole che l’equilibrio globale non è più sospeso tra Stati sovrani, ma tra silos di codice e algoritmi di deterrenza. Gli esperti di difesa parlano di “escalation controllata”, come se fosse un aggiornamento software. Ma chi controlla chi, quando i protagonisti sono due potenze nucleari informali — Israele e Iran — e una potenza nucleare conclamata ma in crisi identitaria — gli Stati Uniti — guidata da un Presidente che vede nella distruzione un brand positioning?

Le ostilità tra Israele e Iran, iniziate lo scorso 13 giugno con la consueta giustificazione preventiva — “Teheran è a un passo dalla bomba” — si sono trasformate in un ping-pong mortale, con droni, caccia stealth e missili a lungo raggio. Un duello ad alta tecnologia tra potenze regionali, ora potenziato da un intervento americano in pieno stile shock and awe. L’hashtag potrebbe essere #NuclearTinderbox, ma la realtà supera qualunque meme.

Teheran, ovviamente, nega tutto. Nega l’intento militare del proprio programma nucleare, si appella alla narrativa “per usi pacifici”, accusa Washington di sabotaggio internazionale e avverte che ci saranno conseguenze. Ma la verità, come sempre, non è nei comunicati stampa. È nella polvere sollevata dai Tomahawk, nei radar che scompaiono dai cieli, nei mercati petroliferi che iniziano a tremare. E in quel silenzio pesante che precede ogni risposta militare degna di questo nome.

Gli osservatori più attenti, quelli che non si nutrono solo di breaking news, notano la tempistica chirurgica: il raid americano arriva a poche ore dalla dichiarazione di Trump, secondo cui avrebbe deciso “entro due settimane” se colpire l’Iran. Il tempo è una variabile elastica nella politica trumpiana: due settimane si traducono in due ore, e la diplomazia lascia il posto alla diretta Twitter. Non c’è strategia nel senso classico del termine, c’è storytelling. E questo attacco è una stagione nuova di una serie vecchia: “Make the Middle East Burn Again”.

L’Iran non è l’Iraq del 2003. Non ha lo stesso isolamento diplomatico né la stessa fragilità interna. Ha alleati strategici, una capacità militare asimmetrica, e soprattutto una narrativa di martirio che sa vendere molto meglio di quanto il Pentagono sappia costruire la pace. La reazione iraniana, qualunque essa sia, sarà misurata in modo da massimizzare l’effetto politico e mediatico. I proxy non mancano: Hezbollah in Libano, le milizie sciite in Iraq, gli Houthi in Yemen. Un’escalation a geometria variabile, con epicentro diffuso.

In tutto questo, l’Europa balbetta, la Cina osserva con cinismo strategico e la Russia sorride da dietro le quinte. Il mondo multipolare ha ufficialmente abbandonato le sue pretese di stabilità. Il diritto internazionale si è dissolto nel cloud, e ciò che resta è una partita di scacchi quantistica, dove ogni mossa può essere simultaneamente offensiva, difensiva, propagandistica e suicida. La parola “pace” è stata derubricata a retorica residuale per comunicati ONU.

A chi sperava che l’intelligenza artificiale potesse risolvere i conflitti umani, oggi la realtà risponde con uno schiaffo: l’AI è già dentro la guerra, non per impedirla, ma per ottimizzarla. Il targeting dei missili, la raccolta di intelligence, persino la costruzione della narrativa internazionale — tutto ormai passa da modelli predittivi e reti neurali. La guerra del 2025 non è più fatta di uomini contro uomini, ma di sistemi contro sistemi. Le bombe sono intelligenti, ma le decisioni restano tragicamente stupide.

Ed è qui che la domanda diventa inevitabile: abbiamo ancora margine per evitare il collasso? O siamo entrati in quella zona grigia in cui la pace non è più nemmeno un’opzione di menu? Perché se ogni colpo è “chirurgico”, ogni vittima è una statistica, ogni Paese è un teatro e ogni dichiarazione un algoritmo di sentiment analysis, allora forse è arrivato il momento di ammettere che il conflitto in Medio Oriente non è solo geopolitica. È il nostro specchio nero.