Mentre i big della Silicon Valley si rincorrono per portare l’AI nel cloud e poi farla rimbalzare sui nostri dispositivi con ritardi da modem 56k, Google gioca di sponda: spinge forte sull’intelligenza artificiale on-device, direttamente nel cuore del nuovo Lenovo Chromebook Plus 14, senza passare dal via né da AWS. Nessun bisogno di una connessione stabile, né di affidarsi a server lontani: il cervello ora è in tasca. O meglio, in borsa.

È una mossa che suona strana in un’epoca in cui tutti sembrano voler centralizzare. Eppure, è quasi sovversiva nella sua semplicità. Perché quando Google annuncia che il nuovo Chromebook Plus integra funzionalità AI in locale per organizzare schede e documenti, modificare immagini e semplificare testi complessi, non sta solo parlando agli studenti o ai knowledge worker. Sta mandando un messaggio chiaro all’intero settore: la potenza computazionale ora è personale, e l’AI smette di essere un servizio remoto per diventare un’estensione naturale del sistema operativo.

Dietro a questa rivoluzione silenziosa c’è un cuore ARM, più precisamente il MediaTek Kompanio Ultra, un processore che potrebbe sembrare un outsider in un mondo dominato da Intel e AMD. Ma è l’NPU il vero protagonista, capace di macinare fino a 50 TOPS (trillion operations per second). Un numero che fa sorridere chi ricorda i tempi in cui le GPU Nvidia facevano notizia con le loro 2-3 TOPS. È come passare da un triciclo a una Tesla: stesso concetto, ma con propulsione quantistica.

Il risultato? Un laptop con 17 ore di autonomia — il record assoluto per un Chromebook Plus — che può ordinare da solo le tue 58 tab aperte, migliorare una foto senza passare da Lightroom e, cosa più sottovalutata di tutte, spiegarti un testo complicato come se fosse una nota vocale di WhatsApp. Non solo, con lo strumento di text capture puoi estrarre testo da una foto e trasformarlo in qualcosa che si può effettivamente usare, magari in un report, in un’email, o semplicemente per ricordarti cosa c’era scritto sul cartello del parcheggio.

C’è anche la Quick Insert Key, una tastiera con il turbo AI: premi un tasto e generi immagini tramite intelligenza artificiale senza aprire mille app o finestre. Il copywriter interiore di ogni utente ringrazia. O forse si ribella. Perché con strumenti così integrati e “invisibili”, il confine tra creazione umana e produzione automatica si sfuma fino a sparire del tutto.

Ma Google non si ferma qui: con il suo AI Pro Plan – nome che sa tanto di piano di abbonamento per supereroi digitali – offre accesso privilegiato alle versioni avanzate di Gemini e NotebookLM, il suo taccuino neurale in salsa AI. Dodici mesi gratis per chi compra il nuovo Chromebook, poi $240 l’anno. Un prezzo che fa pensare: o è un affare colossale, o stiamo per entrare in una nuova era in cui anche il pensiero computazionale è sotto licenza.

Il fatto che il prezzo del Chromebook stesso vari tra i $649 e i $749, in base alla RAM, dice molto sul tipo di utente target: non è un device per chi cerca solo un’alternativa economica al MacBook, ma un sistema operativo in carne e silicio per chi vuole performance AI senza compromessi e senza cloud.

E se pensavi che fosse finita qui, ecco la ciliegina: arriva una versione ottimizzata di Squid Game: Unleashed, sviluppata da Boss Fight e Netflix Game Studio, per sfruttare appieno lo schermo e le performance di questo laptop. Perché l’AI può anche salvarti nella vita lavorativa, ma alla fine è sempre l’intrattenimento a fare da benchmark culturale. Un Chromebook che ti organizza la giornata e poi ti uccide virtualmente in un battle royale coreano: coerenza narrativa o geniale dissonanza?

In tutto questo, quello che emerge è che Google sta ridefinendo non solo cosa può fare un laptop, ma cosa dovrebbe fare. Sta portando l’AI fuori dalle torri d’avorio della GPU farm e dentro dispositivi accessibili, reali, quotidiani. E lo fa con una strategia che ha l’aria di essere meno glamour rispetto a quelle di OpenAI, Microsoft o Meta, ma forse proprio per questo più scalabile, più concreta.

La questione più interessante però è un’altra, più sottile e potenzialmente dirompente: cosa succede quando l’intelligenza artificiale non è più un’entità a cui ci si collega, ma un compagno silenzioso con cui si convive? Quando è lì, nei 17 millimetri di uno chassis, a suggerirti, ordinarti, completarti? L’AI on-device non è solo una feature, è un paradigma. E Google lo sa bene. Sta mettendo l’AI dove nessuno potrà toglierla: nel silicio. Nel metallo. Nella quotidianità.

E per una volta, fa quasi paura quanto tutto questo abbia perfettamente senso.