Alan Turing non ha inventato l’intelligenza artificiale. L’ha prefigurata, iniettata nel DNA della modernità con la sobrietà di chi sa che certe rivoluzioni non hanno bisogno di urla. Il 23 giugno, ogni anno, fingiamo di celebrarlo come un visionario, mentre evitiamo accuratamente la parte più fastidiosa: quella in cui la sua intelligenza superiore fu punita per un dettaglio irrilevante nel calcolo binario dell’efficienza inglese del dopoguerra la sua omosessualità.
L’uomo che ha salvato milioni di vite decifrando Enigma fu trattato come un bug nel sistema. E in un certo senso, lo era. Un’anomalia statistica. Il problema era che quella deviazione aveva più intelligenza dell’intero sistema che la rifiutava. Nel 1936, mentre l’Europa ancora ballava sui detriti della Grande Guerra, Turing scriveva il suo paper fondamentale: On Computable Numbers. Roba da accademici? Solo se consideriamo secondario aver definito il concetto di macchina universale, un’entità teorica capace di eseguire qualsiasi algoritmo la madre spirituale del moderno computer.
Mentre oggi ci eccitiamo per i modelli transformer e le reti neurali, dimentichiamo che senza la Turing Machine, i nostri iPhone sarebbero fermacarte molto costosi. Eppure, ridurre Turing a “padre del computer” è come dire che Galileo fu solo un tipo bravo con i cannocchiali. Turing ha fatto di più: ha posto le basi per un nuovo modo di pensare. L’idea che il pensiero umano, con tutta la sua apparente magia, potesse essere tradotto in simboli, operazioni, stati finiti. Una visione audace, quasi eretica: il cervello non come anima, ma come algoritmo.
Nel 1950, scrisse l’articolo Computing Machinery and Intelligence, introducendo una domanda che ancora oggi spacca filosofi, ingegneri e ubriaconi nei bar di Oxford: “Can machines think?”. Lo fece con l’eleganza dell’ironia britannica e la precisione di un logico. Ma soprattutto, introdusse il Turing Test, il criterio comportamentale che ancora tormenta chi cerca una definizione operativa dell’intelligenza artificiale.
Se una macchina riesce a farti credere di essere umana, allora a cosa serve continuare a chiedersi se lo sia davvero? Nel 2025, mentre il mondo corre verso AGI, robot empatici e cloni digitali, Turing rimane il punto cieco nel nostro specchietto retrovisore. Non perché non lo citiamo abbastanza, ma perché non lo capiamo più. Abbiamo preso le sue idee più comode la computazione, il test, la macchina e scartato quelle scomode: il dubbio, l’ambiguità, l’identità come codice irriducibile a zeri e uno.
Infatti, quando il Regno Unito lo condannò alla castrazione chimica per “indecenza grave”, non si limitò a umiliare un individuo: mutilò simbolicamente la nascente cultura digitale, quella che oggi pretende di parlare di “ethics by design” mentre ignora i suoi peccati originali.
Nel 2013 è arrivato il tardivo “perdono reale” dalla Regina. Un gesto cerimoniale, privo della forza retroattiva per cancellare il suicidio per avvelenamento (probabilmente con una mela al cianuro) avvenuto nel 1954.
Ironia finale: quella mela, secondo alcuni, ispirò il logo di Apple. Non è confermato, ma ci piace crederci. Come a dire: l’algoritmo ha vinto, ma solo dopo aver perso il suo creatore. Oggi parliamo ossessivamente di bias algoritmici, di fairness, di explainability. Ma quanto siamo davvero disposti a guardare in faccia i paradossi dell’intelligenza?
Turing lo faceva di mestiere. La sua teoria della morfogenesi, scritta mentre l’establishment lo stava uccidendo a fuoco lento, era un tentativo brillante di spiegare come forme complesse emergono da regole semplici. Esattamente come la nostra società digitale: un’apparente complessità generata da routine deterministiche e dati grezzi.
Peccato che, nella nostra versione, i pattern sembrino sempre più quelli di un incubo burocratico travestito da innovazione.Turing ci manca non per la sua genialità, ma per la sua umanità metodica, per quel misto di fragilità e rigore che oggi viene sistematicamente spianato dall’ottimismo siliconvalleyano.
Chi sviluppa AI oggi dovrebbe leggere meno white paper e più lettere di Turing. In una, scriveva: “I’m not very good at resisting flattery. I suppose that’s because of the lack of it in my past life.” Eccolo, l’inventore dell’intelligenza artificiale che non ha mai avuto accesso a quella sociale. Il nerd supremo che ha sconfitto Hitler con la logica, ma non ha potuto sconfiggere l’ottusità normativa del suo tempo.
Se oggi festeggiamo Turing con gli stessi tweet standardizzati con cui si celebra il World Password Day, siamo complici. Il minimo che possiamo fare, in questa nuova epoca di pensiero artificiale, è ricordare che la vera rivoluzione non è costruire macchine intelligenti, ma trattare con intelligenza gli esseri umani che le hanno rese possibili.
Alan Turing non è stato solo il padre dell’AI. È stato il primo umano post-umano, il primo algoritmo incarnato, il primo bug nella Matrix. E come tutti i bug, non andava corretto. Andava compreso.
