Lo chiamano “cessate il fuoco”, ma a quanto pare il fuoco non lo sanno cessare. Neanche il tempo di aggiornare la home page del sito del Pentagono con il comunicato di pace che Israele annuncia già l’ennesimo round di razzi iraniani piombati su Beersheba. Tre morti, sei ondate di missili, e il ministro della Difesa israeliano Israel Katz che ordina una “risposta militare potente”. Traduzione: il bottone è già stato premuto. La notizia? Non è tanto l’attacco. È che entrambe le parti, solo qualche ora prima, avevano accettato un piano di cessate il fuoco targato Donald Trump, l’uomo che firma la fine della guerra via social con la stessa nonchalance con cui pubblicava licenziamenti in diretta a “The Apprentice”.

Il copione è noto: escalation, ritorsioni, missili, dichiarazioni minacciose, una proposta di tregua americana (sempre tempestiva, sempre egocentrica), e infine il twist narrativo: l’accordo viene infranto ancora prima di entrare in vigore. Secondo la Casa Bianca, il cessate il fuoco doveva iniziare martedì mattina con l’Iran, e dodici ore dopo con Israele. Ma evidentemente qualcuno ha dimenticato di sincronizzare gli orologi geopolitici. O più semplicemente, la parola “cessate il fuoco” è stata tradotta in persiano e in ebraico come “prepararsi alla prossima salva”.

Da parte sua, Teheran nega tutto. “Non abbiamo lanciato missili verso Israele,” dichiarano. Una smentita tanto formale quanto familiare, in un gioco di specchi dove la verità è spesso la prima vittima collaterale. E mentre i portavoce si affannano a rigettare ogni accusa, gli obitori israeliani raccolgono i resti delle vittime civili. Non esattamente lo scenario idilliaco promesso dal post trionfale di Trump: “Official END to THE 12 DAY WAR”. Nemmeno il tempo di digerire il maiuscolo che già i fatti lo smentiscono.

La verità, sotto la coltre di dichiarazioni ufficiali e hashtag diplomatici, è che questo “cessate il fuoco” non era altro che un fragile espediente per salvare la faccia. Israele si era affrettato ad annunciare che il proprio obiettivo — neutralizzare la minaccia nucleare e missilistica iraniana — era stato raggiunto. Peccato che, nel frattempo, l’Iran avesse risposto colpendo una base americana in Qatar. E ancora una volta, è stata l’America a proporre la pace dopo aver contribuito attivamente alla guerra. Un classico del genere: creare l’incendio e poi offrirsi come pompiere.

Siamo entrati in una nuova fase del confronto Iran-Israele, quella in cui la guerra non si annuncia più con invasioni di terra, ma con notifiche sui social media. La rapidità con cui la narrazione viene costruita e distrutta è sconcertante. Lunedì mattina si parlava di “espansione del conflitto”, la sera Trump twittava la pace. Martedì mattina, missili iraniani. Martedì pomeriggio, Israele risponde. Martedì sera, si torna a negoziare. E nel frattempo, i cittadini delle città colpite si rifugiano sotto terra, mentre i leader si rimpallano dichiarazioni sopra le loro teste.

Dietro la facciata diplomatica, resta una verità geopolitica cruda: Teheran non intende arretrare sul proprio programma nucleare, che continua a definire “per scopi pacifici” mentre arricchisce uranio a livelli sempre più sospetti. E Israele, da parte sua, non ha alcuna intenzione di accettare un Iran potenzialmente dotato dell’arma atomica. Dunque il punto non è se ci sarà un altro round, ma quando. Con buona pace dei comunicati ufficiali, degli analisti televisivi e delle mozioni ONU.

L’aspetto più surreale è che tutto questo avviene in una realtà parallela dove la diplomazia vive tra una dichiarazione di vittoria e una smentita incrociata. Il ministro degli Esteri iraniano avverte che “non ci sarà cessate il fuoco finché Israele non cesserà gli attacchi”. È come giocare a scacchi con qualcuno che cambia le regole a metà partita. Il problema è che, in questo gioco, le pedine sono vite umane.

Che questa guerra duri 12 giorni, 12 settimane o 12 minuti è irrilevante per chi la subisce. Il balletto delle dichiarazioni e delle controsmentite serve solo a mantenere l’illusione che qualcuno, da qualche parte, abbia ancora il controllo. In realtà, è il caos che guida, come sempre. E mentre Trump scrive la parola “fine” con enfasi maiuscola, i generali sul campo sono già pronti al prossimo atto. Titolo provvisorio: “fine della fine”.

Ma ormai lo abbiamo capito: in Medio Oriente, la pace è una conferenza stampa. La guerra, invece, è l’unico linguaggio che si parla fluentemente.