Nel panorama ipercompetitivo dell’innovazione tecnologica, la reputazione di un brand non si costruisce più soltanto sul prodotto finale, ma su un raffinato equilibrio di narrazione, silenzi strategici e mosse legali calibrate. L’ultimo caso che coinvolge OpenAI e il team io di Jony Ive, costretto a fare marcia indietro sulle pubbliche dichiarazioni del suo nuovo dispositivo AI a seguito di una causa per marchio con la startup Iyo, è un perfetto esempio di questo gioco al massacro della percezione pubblica.

Il cuore pulsante di questa strategia è una negazione tattica. OpenAI e io dichiarano che il primo prodotto non sarà un dispositivo “in-ear” né un wearable, pur avendo passato mesi a sondare proprio quel terreno, comprando decine di cuffie, auricolari e apparecchi acustici da diverse aziende, e considerando addirittura la scansione 3D delle orecchie umane per studiarne l’ergonomia. La contraddizione tra ciò che viene detto e ciò che effettivamente si fa non è casuale: serve a mantenere una cortina di fumo, a non rivelare troppo presto le carte in mano in un settore dove ogni informazione è oro, e dove anticipare i tempi può voler dire perdere il vantaggio competitivo.

La dichiarazione di Sam Altman – “thanks but im working on something competitive so will respectfully pass” – è una piccola perla di comunicazione subliminale. Non è solo un rifiuto educato a un’offerta di investimento; è un messaggio chiaro a concorrenti e mercato: stiamo lavorando a qualcosa di rivoluzionario, non vi preoccupate di Iyo e simili, abbiamo il controllo della partita. Una mossa elegante, condita da quel tocco di ironia che denota la consapevolezza del potere strategico delle parole in un contesto legale e mediatico.

Parliamo poi del timing. OpenAI afferma che il dispositivo non arriverà prima del 2026, confermando che il prototipo menzionato da Altman non è ancora pronto per il mercato. In un’epoca in cui tutti corrono a sbandierare i loro prodotti “imminenti”, questa scelta di spostare l’asticella temporale sembra quasi controintuitiva, eppure è una forma sofisticata di posizionamento. L’attesa crea desiderio, suspense e – cosa più importante – un’aura di esclusività che può aumentare il valore percepito del prodotto. È il vecchio trucco del “non è per tutti, arriverà quando sarà perfetto”, che funziona sempre.

Non meno importante è l’atteggiamento nei confronti della causa legale. La rimozione delle menzioni al brand io, vittima di un’ingiunzione temporanea, rappresenta un segnale di rispetto formale verso la proprietà intellettuale altrui. In un settore in cui l’immagine di “big tech” invincibile e arrogante può ritorcersi contro, OpenAI opta per una gestione del rischio reputazionale che lascia intendere una volontà di giocare pulito, almeno in apparenza. Questo equilibrio tra aggressività commerciale e correttezza formale è una sfida tipica delle grandi aziende tecnologiche che vogliono mantenere legittimità e fiducia nel lungo termine.

La strategia comunicativa di OpenAI e io è un gioco di audience shaping. Con riferimenti tecnici come la scansione 3D delle orecchie e studi ergonomici, il brand parla a una nicchia di addetti ai lavori, ingegneri e designer, alimentando la narrazione di un’azienda all’avanguardia non solo nell’intelligenza artificiale ma anche nel design hardware integrato. È un modo per accreditarsi come innovatore totale, capace di dominare sia il software sia la forma, e di staccarsi nettamente da prodotti considerati “mediocri” come quelli citati nei rumors (Humane, Rabbit).

Se esiste una lezione da trarre da questa vicenda è che nel futuro del tech il controllo della brand reputation si gioca in anticipo, sul filo sottile tra trasparenza e segretezza, tra attesa e rivelazione parziale. Meno si dice, più si può far immaginare. E più si crea valore. Ironia della sorte, in un’era saturata di informazioni, la vera innovazione comunicativa è il potere di tacere… ma con stile.