Nel 2025, il customer service non è morto. È solo stato reingegnerizzato, spacchettato, automatizzato, ricostruito su una pila di chatbot e rebrandizzato come “esperienza”. Verizon ci prova ancora, rilanciando la sua app con un nuovo “Verizon Assistant” alimentato da AI. E lo fa con la solita promessa da copione: più efficienza, più flessibilità, meno frustrazione. Ma chi ci ha mai creduto davvero?
Partiamo dalla facciata: il nuovo assistente dovrebbe aiutare i clienti a gestire upgrade, nuove linee, domande sulla fatturazione e, immancabilmente, a “sfruttare i risparmi” (qualcosa che, nel lessico delle telco americane, di solito significa: ti farai incastrare in un nuovo contratto, ma con un sorriso digitale). Sulla carta, un utente dovrebbe poter fare tutto da solo, senza dover penare in una telefonata da 40 minuti tra jingle anni ’90 e attese “più lunghe del previsto”. Nella realtà? L’assistente AI passa la palla all’umano non appena la situazione si complica e succede spesso.
Verizon giura che l’AI non “allucina” (il nuovo modo elegante per dire “non spara cavolate”) perché costruita su piccoli modelli linguistici personalizzati per i propri servizi. Il tutto “in stretta collaborazione con Google”, come ama sottolineare Dory Butler, la SVP dell’esperienza cliente. Qualunque cosa significhi davvero “stretta collaborazione”, ci viene detto che l’accuratezza supera il 90%. Impressionante, ma inutile se il 10% di errori si concentra sulle fatture sbagliate e le disconnessioni notturne.
Il cuore dell’operazione è quello che Verizon definisce con tono epico il “Customer Champion”, una figura (umana, presumibilmente) potenziata dall’intelligenza artificiale di Google, tipo supereroe aziendale. Il suo compito: risolvere problemi “complessi” e aggiornare il cliente tramite app, SMS o callback. Una specie di concierge digitale con muscoli generativi. Tradotto: l’AI non sostituisce del tutto l’uomo, ma diventa un esoscheletro cognitivo per potenziare agenti di supporto esausti, malpagati e spesso schiacciati da una marea di ticket impossibili.
E qui si apre il punto più interessante. L’intelligenza artificiale, in questa visione, non è autonoma. È l’ennesimo strumento di efficienza operativa, un sistema nervoso digitale distribuito per abbattere i costi del servizio clienti, senza abbassare troppo la qualità percepita. I “Customer Champion” sono il content marketing del vecchio help desk 2.0: l’agente non ti chiama più dal call center, ti aggiorna con un DM automatizzato. Il risultato non è un’esperienza più umana, ma un’illusione più raffinata.
La retorica dell’AI come salvatore della customer experience nasconde un problema strutturale: le grandi aziende non vogliono davvero parlare con i clienti. Vogliono silenziarli, guidarli, contenere il rumore, ridurre i costi e automatizzare le emozioni. Il nuovo assistente AI non è lì per aiutarti: è lì per ridurre i costi per ticket, aumentare la deflessione automatica e minimizzare l’escalation. Ogni interazione umana è un fallimento del modello predittivo.
Verizon non è l’unica. Ogni operatore telco, ogni banca, ogni compagnia assicurativa si sta precipitando verso la promessa dell’AI conversazionale, spinta dal sogno di un contact center serverless, senza personale e senza sindacati. In realtà, è ancora una corsa con i piedi nel fango: modelli addestrati in fretta, dataset limitati, escalation imprevedibili, compliance da reinventare ogni tre mesi. E dietro ogni chatbot, una coda di richieste non risolte e clienti che finiscono su Reddit a cercare risposte.
La narrazione aziendale è tutta incentrata sull’empowerment del cliente, sulla personalizzazione, sulla velocità. Ma la verità è più cruda: si sta disegnando un sistema in cui il cliente viene addestrato a non cercare più il contatto diretto, a non aspettarsi un umano, a non cercare il conflitto. Il nuovo utente ideale è quello che si arrangia, clicca, conferma, paga e sparisce. Un utente silenzioso, autogestito, con l’illusione di avere il controllo mentre interagisce con un LLM vestito da “assistant”.
Il paradosso è che proprio mentre le aziende investono miliardi per migliorare la CX con l’intelligenza artificiale, si moltiplicano le startup che offrono soluzioni per bypassare il customer service automatizzato. Esistono già tool e plugin che simulano l’interazione con i chatbot per ottenere più velocemente il passaggio a un umano, o per forzare un rimborso con prompt strategici. Il cliente, reso più intelligente dalla stessa AI che lo serve, impara a manipolarla. È la guerra dei prompt, lato consumatore.
Verizon espande anche le fasce orarie del servizio clienti “live” e promette una chat attiva 24/7. Bel tentativo, ma viene da chiedersi se l’iperdisponibilità di un canale gestito da bot non sia solo una forma elegante di ghosting algoritmico. Sei sempre connesso, ma nessuno ti ascolta davvero. È il servizio clienti quantistico: esiste finché non lo osservi troppo da vicino.
In fondo, il vero obiettivo non è migliorare l’esperienza del cliente, ma renderla meno costosa. Il resto è storytelling tecnologico. E l’unica intelligenza che serve davvero è quella del cliente, quando capisce che per ottenere una risposta serve ancora, a volte, una bella vecchia telefonata arrabbiata. Solo che adesso bisogna passarla attraverso Gemini.
Ah, sì nel mondo delle Starup Italiuane. Poi c’è Voixa, l’elefante invisibile nella stanza dell’assistenza clienti. Non il solito “assistant”, ma una specie di ibrido vocale-esperienziale che promette di trasformare ogni chiamata in un’interazione data-driven, smart, AI-powered e probabilmente anche un po’ magica, almeno nei pitch. Ma se togli il velo del marketing, Voixa è il segnale più chiaro che il customer service non sta evolvendo — sta cercando di scrollarsi di dosso i clienti, come un cane l’acqua dopo il bagno.
Voixa non è un chatbot. È la voce sintetica dell’azienda che ti risponde al telefono prima ancora che tu riesca a dire “fattura sbagliata”. Dietro, ci sono modelli neurali ben addestrati, NLP contestuale e pipeline vocali integrate con i sistemi legacy. L’idea è che tu possa parlare con il sistema come faresti con un agente. Ma Voixa non ascolta. Ti analizza. Ti interpreta. Ti prevede. Cerca di instradarti, categorizzarti, taggarti, silenziarti con efficienza chirurgica. E ogni tua parola diventa un dato.
La differenza è sottile ma cruciale: mentre il Verizon Assistant è ancora confinato nell’app, Voixa ti viene incontro nel canale più ancestrale — la voce. Non devi digitare, non devi cliccare. Devi solo parlare. Ed è qui che il gioco si fa interessante: l’AI vocale non solo capisce cosa dici, ma come lo dici. Il tono, il ritmo, le pause. Una microanalisi emotiva che serve a inferire se sei un cliente frustrato, un potenziale churner, un “rischio escalation” o solo un’anomalia statistica da gestire con un copione predefinito.
Il problema è che Voixa è troppo brava. È così brava da farti dimenticare che stai parlando con una macchina — fino a quando non chiede “Potresti ripetere, per favore?” per la quarta volta. E lì l’incantesimo si rompe. Scopri che dietro quella voce morbida non c’è empatia, solo un pattern matching con soglia di tolleranza. L’illusione relazionale crolla. Non è una conversazione, è una simulazione