Se non sai neanche cosa chiedere, sei fregato
C’è un momento nella vita – se sei fortunato – in cui ti accorgi che non sai. Ma ancor prima ce n’è uno più insidioso: quello in cui non ti accorgi nemmeno che dovresti chiedere. È lì che abita l’ignoranza vera, quella spessa come la nebbia padana, impenetrabile, comoda. Ed è lì che si apre il varco per un tema scottante e poco glamour: l’informazione.
Luciano Floridi, filosofo gentile con l’acume da bisturi, lo spiega con il garbo di chi sa di toccare un nervo scoperto. L’informazione, dice, è stata la Cenerentola della filosofia: sfruttata, marginalizzata, data per scontata. Eppure, senza, la festa non comincia nemmeno. Né quella epistemica né quella sociale.
In un mondo che annega nei dati, ma assetato di significato, sapere distinguere tra “avere la risposta” e “sapersi porre la domanda” è più che un esercizio intellettuale: è un’abilità di sopravvivenza.
Floridi costruisce il suo ragionamento partendo da una tripartizione tanto semplice quanto devastante. Primo tipo di informazione: quella nel mondo, i cerchi degli alberi o le impronte digitali sulla scena del crimine. Neutri testimoni della realtà, non dicono come dovrebbe essere, ma com’è andata. Poi c’è l’informazione operativa, quella delle ricette o degli algoritmi. Ti dice cosa fare, come fare, se vuoi un risultato preciso. Ma non è “vera” o “falsa”: è utile, o no.
La terza – e qui iniziamo a tremare – è quella fattuale. L’unica a poter essere qualificata come vera o falsa. “La capitale della Francia è Parigi” non è un’opinione. È un’informazione. Non ce l’hai? Peggio per te. Ma, attenzione: sapere che non la sai è già un progresso. Ti qualifica come insipiente. E no, non è un’offesa: è la fase intermedia tra ignoranza e conoscenza.
Floridi ci fa scivolare dentro questo meccanismo concettuale come in una cucina filosofica: prima si pulisce il banco da lavoro – eliminando le pseudo-informazioni, i dati sporchi, le ricette di senso – poi si taglia a fette il concetto di informazione. E lì, nel cuore della questione, scopriamo una cosa imbarazzante: la nostra ossessione contemporanea per le risposte è una scappatoia dalla fatica del pensiero.
Non sapere che domanda porre è la tragedia dell’epoca. Non avere la risposta? Una tappa.
L’informazione fattuale è fatta di domande e risposte. Ma se togli la risposta, cosa resta? L’incertezza. E se togli anche la domanda? L’ignoranza, nuda e cruda. Saper domandare, allora, è già mezzo sapere. È un atto rivoluzionario, in un tempo in cui le domande sono appaltate a Google e le risposte a ChatGPT.
“Il problema non è non sapere, ma non sapere di non sapere”, diceva un certo Socrate. Nel 2025, aggiornando il firmware, potremmo dire che il problema non è l’assenza dell’informazione, ma la saturazione di pseudo-risposte che ci impediscono di generare buone domande. E mentre i sistemi predittivi si affinano, la nostra capacità di porci domande decresce esponenzialmente. Una tragedia silenziosa.
Chiariamoci: la conoscenza non è una collezione di risposte. È un tessuto connettivo che giustifica l’informazione, la spiega, la inserisce in una rete. Sapere che la capitale della Francia è Parigi è una cosa. Sapere perché lo è diventata, cosa significava Lutetia, cosa successe nel 987 quando Ugo Capeto mise fine alla dinastia carolingia, è un’altra.
Allora ecco il punto chiave: in un mondo dove puoi sapere qualsiasi cosa in tre secondi, l’unica vera skill è capire cosa vale la pena sapere. L’intelligenza oggi è selettiva, non enciclopedica. Se la tua testa è piena di risposte a domande che non ti sei mai posto, non sei informato. Sei riempito.
L’educazione, dice Floridi, non dovrebbe mirare a fornirti tutte le risposte giuste, ma a insegnarti a fare le domande giuste. E non è solo un motto pedagogico: è un principio politico. Perché una cittadinanza capace di interrogarsi è pericolosa. Non si beve il telegiornale. Non si accontenta dei meme. Non confonde opinione e verità.
In un tempo di inquinamento informativo, fake news, saturazione mediatica e overload cognitivo, l’informazione è l’ossigeno. Ma attenzione: anche l’ossigeno può essere velenoso, se miscelato male. Abbiamo bisogno di una filosofia dell’informazione che non sia una disciplina accademica, ma una cassetta degli attrezzi quotidiana.
Non è “nice to have”, come direbbero nei piani alti delle big tech. È un imperativo. Perché senza un’ecologia dell’informazione, finiamo in apnea. E smettiamo di pensare.
Floridi ci lascia con una provocazione elegantemente travestita da metafora: “L’essere onnisciente è chi conosce tutte le domande, e ha già pronte tutte le risposte. In fondo, forse Dio è solo un numero. Un numero binario che contiene tutti gli 0 e gli 1 di ogni possibile risposta esatta.” Potremmo riderci su, se non fosse che mentre cerchiamo il significato della vita, l’algoritmo ci sta già suggerendo l’ennesima pubblicità targettizzata.
E allora forse è arrivato il momento di fermarsi. Respirare. E porsi, finalmente, la domanda giusta.