Quando anche il Congresso ha paura dell’intelligenza artificiale
Quello che è appena accaduto nella Commissione parlamentare del Congresso americano su Cina e intelligenza artificiale non è una semplice udienza: è un campanello d’allarme istituzionale, un raro momento di lucidità bipartisan in un’epoca in cui la lucidità è un bene scarso quanto la moderazione algoritmica su TikTok. Se finora l’Intelligenza Artificiale era il giocattolo brillante dei CEO in cerca di market cap, dei venture capitalist in overdose da PowerPoint e dei think tank autocompiaciuti, ora entra ufficialmente nel vocabolario legislativo con una gravitas che ricorda l’ansia esistenziale dei primi esperimenti atomici.
Il fatto che deputati statunitensi — con curricola spesso più adatti al talk show serale che alla supervisione dell’AGI — parlino apertamente di minacce esistenziali, superintelligenza, necessità di allineamento ai valori umani, trattati in stile Convenzione di Ginevra e persino di scenari da ricatto digitale perpetrato da agenti come Claude, è un segnale forte: la politica non solo ha smesso di ignorare l’intelligenza artificiale, ma ha cominciato a temerla. E quando il Congresso ha paura, storicamente, è lì che succede qualcosa. Spesso non qualcosa di buono, ma comunque qualcosa.