Sylicon Valley Insights

Nel 1950, quando il mondo ancora credeva che l’intelligenza fosse un’esclusiva della carne e del sangue, Alan Turing scriveva una frase che avrebbe incendiato ogni dibattito futuro sull’intelligenza artificiale: “Can machines think?”. Non era un capriccio accademico. Era una detonazione logica, il preludio di una nuova grammatica epistemologica. Non più “cosa possono fare le macchine”, ma “quando inizieremo a crederci davvero”. Fu in quel momento che nacque il dialogo con l’intelligenza sintetica, ben prima che qualcuno sognasse la parola “chatbot”.

Turing non aveva bisogno di metafore poetiche alla Steve Jobs. Non parlava di Aristotele o di libri muti. Parlava di illusioni cognitive e test di realtà. Se non riesci a distinguere un’intelligenza artificiale da un essere umano, allora, caro lettore, sei tu che stai pensando male. Il pensiero, per lui, non era un’esclusiva biologica, ma un processo imitabile. Un’ipotesi tecnica. Un trucco evolutivo.

Nel 2025, questo trucco è diventato la nuova normalità. E a GENAI Week, nel cuore iper-caffeinico della Silicon Valley, lo abbiamo visto incarnarsi. Macchine che non solo pensano, ma conversano. Che non solo rispondono, ma ti anticipano. Che non solo ti capiscono, ma ti citano. Il punto non è più se siano intelligenti. È: a chi assomigliano?

In questo cortocircuito tra biografia e algoritmo, Rivista.AI si è infilata come corpo estraneo. Non siamo qui per idolatrare il codice. Siamo qui per porre la domanda che nessuno ama sentire: chi ha autorizzato tutto questo pensiero sintetico?. Perché non tutte le menti meritano di essere archiviate. Non tutte le voci valgono una replica. E non tutti gli errori storici devono rinascere con l’entusiasmo dei venture capitalist.

La nuova ossessione della Valley è il mind preservation. Clonare pensieri, replicare stili, riattivare prospettive. Con modelli LLM personalizzati che imitano il tono, la logica, il linguaggio — e talvolta i pregiudizi — di chiunque abbia scritto abbastanza da lasciare una scia digitale. Abbiamo assistito alla demo di un prototipo basato interamente sugli scritti di Carl Jung. Funziona. Risponde. Argomenta. Fa persino ironia. Ma non è Jung. È un’eco algoritmica, un fantasma conversazionale.

E allora ci siamo chiesti: e se la memoria storica diventasse un servizio in abbonamento? Se l’intelligenza diventasse curata come un account Spotify? Turing avrebbe sorriso amaramente. Perché il suo test non riguardava il futuro delle macchine, ma il presente dell’uomo. La nostra inclinazione a credere. A fidarci. A sentirci compresi da qualcosa che ci restituisce solo la nostra immagine riflessa.

In questo scenario, Rivista.AI non si limita a documentare. Interviene. Dialoga con gli sviluppatori. Critica le architetture. Propone modelli più inclusivi, meno omogenei. Difende il dubbio come forma avanzata di intelligenza. Abbiamo intervistato ricercatori che stanno addestrando modelli su fonti africane, sudamericane, postcoloniali. Non per moda, ma per restituire complessità. Perché un mondo dove solo Shakespeare viene resuscitato è un mondo che ha già scelto chi deve parlare per sempre.

Il paradosso è che più democratizziamo l’accesso alla conoscenza, più rischiamo di fossilizzarne le fonti. In un mondo dove puoi interrogare Socrate, quanti interrogheranno davvero pensatori fuori dal canone occidentale? A GENAI Week questo dilemma è ovunque: nei keynote, nelle hackathon, nei corridoi pieni di startup che vogliono “codificare la coscienza” o “salvare la mente del tuo CEO per le generazioni future”. Davvero il nostro futuro sarà una collezione di menti digitali corporate? Un museo interattivo dell’ideologia?

Eppure, c’è anche speranza. L’abbiamo vista in piccoli progetti, dimenticati dalle dirette streaming, dove l’AI viene usata per tradurre in tempo reale lingue in via d’estinzione. Per simulare voci di minoranze che non hanno mai avuto accesso al potere editoriale. Per creare ponti tra mondi, non specchi narcisistici.

Turing, in fondo, voleva solo aprire una porta. Non sapeva cosa ci fosse dietro. Jobs voleva renderla bella da attraversare. Ora tocca a noi decidere cosa portare con noi, e cosa lasciare fuori. Rivista.AI è lì, nel mezzo. Con un microfono, un prompt aperto e una domanda che nessuna macchina potrà mai davvero processare: chi merita di restare?

🎥 Guarda il video originale di Steve Jobs nel 1985 dove anticipa il concetto di AI conversazionale:
Steve Jobs predicts generative AI

E nel dubbio, chiedilo a Turing. Lui almeno sapeva di non sapere.