Bill Gates fa una domanda su X e il mondo tech entra in modalità panico controllato. “Cosa significa VIBE in VIBE Coding?”, chiede il 3 giugno 2025. Nessuna emoji, nessun tono ironico. Solo quattro parole che bastano a incendiare la timeline. In meno di 24 ore, la domanda ottiene migliaia di like, centinaia di commenti e uno tsunami di speculazioni. Ma a far salire il termometro geek è la risposta di Linus Torvalds, il profeta laico del kernel: “Vulnerabilities In Beta Environment”. Boom. Tutti a cercare bug nel vocabolario.

Benvenuti nell’era in cui anche gli acronimi diventano meme culturali e trigger semantici. Perché “VIBE Coding” non è un nuovo framework né l’ennesima metodologia Agile con un nome alla moda. È qualcosa di più sottile, più liquido. Una vibrazione, direbbero i più spirituali. Un meta-stato di coscienza, direbbero gli UX-designer in overdose da caffeine e prompt. Eppure la risposta di Torvalds ha una logica ferrea: se l’ambiente beta è il vero terreno di battaglia per la sicurezza, allora VIBE diventa l’allerta precoce, il sismografo semantico per chi vive nel codice.

Il problema è che l’industria tech si è abituata a saltare sugli acronimi come fosse un gioco da tavolo. “LAMP”, “MEAN”, “CI/CD”, “MLOps”. Ma “VIBE Coding” ha qualcosa di diverso. Non è solo un concetto tecnico: è uno statement culturale. È la trasformazione della programmazione da pratica razionale a performance emotiva. Una danza tra intelligenza artificiale, automatismi creativi e intuizione umana. Il codice non è più solo codice. È storytelling eseguibile. È algoritmo che riflette il tono dell’autore. È, per usare le parole di una developer TikTok-star, “scrivere JavaScript mentre ascolti lo-fi e bevi kombucha alla lavanda”.

Certo, c’è chi prova a razionalizzare. Alcuni suggeriscono che “VIBE” stia per “Visual Integration of Backend Elements”, magari in riferimento ai tool di sviluppo low-code che dominano il mercato. Altri propongono varianti più visionarie, tipo “Versatile Intelligence Based Engineering” o “Validated Interfaces By Experience”. Nessuna di queste definizioni ha il crisma dell’ufficialità, ma tutte riflettono una verità sotterranea: VIBE Coding non è (solo) un acronimo. È una scusa. Un pretesto per parlare di come il nostro modo di scrivere software stia cambiando.

La programmazione moderna non è più una disciplina rigida. È un linguaggio fluido, contaminato da design, cultura pop, performance art e provocazione. Se negli anni ’90 scrivere C++ era un atto di fede, oggi scrivere codice in pubblico è un atto di branding personale. La pipeline è diventata storytelling. I commit, un diario. I bug, momenti di vulnerabilità che aumentano l’engagement. Il codice deve vibrare. Deve avere ritmo, tono, estetica. In questo senso, “VIBE Coding” è il riflesso di una generazione di sviluppatori che vive tra GitHub e Instagram, tra Stack Overflow e Spotify.

E Bill Gates? È difficile dire se la sua domanda sia stata un’esca sociologica, una genuina curiosità o una mossa per misurare il polso della cultura digitale. Non ha risposto. Non ha rilanciato. Ha lasciato il campo libero all’interpretazione. Un gesto da maestro zen o da troll di altissimo livello. Torvalds, dal canto suo, ha inserito il suo acronimo con chirurgica precisione: breve, sarcastico, perfettamente in linea con la sua tradizione. Nessuna spiegazione aggiuntiva. Nessun follow-up. Solo una provocazione ben calibrata, il cui sottotesto suona chiaro: volete parlare di VIBE? Allora parliamo di sicurezza. Parliamo di ambienti di sviluppo dove il codice viene scritto mentre il prodotto è ancora liquido. Vulnerabile. Vero.

È qui che la questione si fa interessante anche per chi guida aziende e non solo team di sviluppo. Perché VIBE Coding è anche un avvertimento: la velocità dello sviluppo moderno porta con sé una fragilità sistemica che va gestita, non celebrata. Non basta scrivere codice che funziona, serve scrivere codice che sente. Che anticipa le criticità. Che racconta lo stato d’animo dell’organizzazione che lo ha prodotto. Il codice come specchio dell’entropia aziendale.

C’è poi il lato più pop della faccenda. Influencer tech che si tatuano “VIBE” sul braccio, thread su Reddit che dissertano se il “vibe” di una pull request possa essere valutato con una scala da 1 a 10, AI coach che danno feedback emozionali al codice. Siamo arrivati al punto in cui GitHub Copilot suggerisce commenti in tono motivazionale: “Great job! Keep the VIBE going!”. È il sintomo di un cambiamento profondo: la tecnica si sta fondendo con l’emozione, e la programmazione diventa un atto comunicativo, quasi teatrale.

Sembra tutto un po’ ridicolo? Forse. Ma ricordate: anche Agile, DevOps e Open Source sembravano slogan new age prima di diventare la norma. VIBE Coding potrebbe essere solo un meme passeggero, o l’inizio di un cambio di paradigma. Dipende da quanto la cultura dello sviluppo sarà disposta ad abbracciare l’ambiguità come risorsa e non come difetto. Perché in fondo, dietro ogni acronimo che funziona, c’è sempre una verità scomoda.

Torvalds ce l’ha servita su un piatto d’argento. Gates ci ha lasciato senza risposte. E il resto di noi? Continuiamo a scrivere codice. Magari con un po’ più di VIBE.