C’è qualcosa di profondamente stonato in una nazione che galleggia sul Mediterraneo e ancora fatica a decidere se vuole comandarlo o subirlo. Alla platea di Assarmatori, Giorgia Meloni ha fatto quello che ogni leader dovrebbe fare quando parla agli armatori: ha raccontato il mare come una miniera, un corridoio, una piattaforma strategica. Applausi, ovviamente. Ma la verità, quella vera, è che il Mediterraneo è molto più di una rotta. È un algoritmo geopolitico instabile che un giorno ti arricchisce e il giorno dopo ti esclude, che assorbe le tensioni globali e le redistribuisce senza pietà. E l’Italia, nel cuore di questo sistema, continua a oscillare tra ambizione e miopia.

Per una volta, però, la narrazione ha avuto una certa lucidità: il Mediterraneo rappresenta l’1% delle acque globali ma catalizza il 20% del traffico marittimo mondiale. Numeri semplici, se non fossero l’equivalente logistico di una bomba atomica silenziosa. Perché in quell’1% ci passano le merci, l’energia, i cavi dati, i migranti, le navi militari e le crisi diplomatiche. Eppure la percezione politica, finora, ha trattato questo bacino come un oggetto ornamentale nella retorica nazionale, non come una leva strategica. Meloni dice che grazie al suo governo il Mediterraneo è tornato protagonista. In realtà, non era mai scomparso. È che non lo guardavamo più con gli occhi giusti.

La verità, come sempre, sta nei fondi. Stefano Messina, presidente di Assarmatori, non ha fatto giri di parole. Ha accusato Bruxelles di aver venduto un ETS (Emission Trading System) come uno strumento green e invece lo ha trasformato in una tassa regressiva che sottrae risorse vitali al settore. Il 50% dei proventi, ha detto, se ne va a tappare il debito pubblico. E mentre si predica decarbonizzazione, si pratica la desertificazione industriale. Una scelta geniale, se l’obiettivo è rendere competitivi i porti del Nord Africa a scapito di quelli italiani. Perché, diciamolo, nessuno vuole pagare una tassa in più se può evitarla. Soprattutto quando basta spostare le rotte a sud di qualche centinaio di chilometri.

Ecco allora il punto: l’Europa chiede ai porti italiani di essere verdi, ma senza finanziare davvero la loro transizione. E Roma, invece di sbattere i pugni, firma le carte. Poi si lamenta in assemblea. Il risultato è che porti come Gioia Tauro rischiano di trasformarsi in cattedrali vuote, mentre Tangeri diventa il nuovo hub mediterraneo per il transhipment. Chi è stupito, evidentemente, non ha mai letto un bilancio logistico. O peggio: lo ha letto, ma ha deciso che la realtà era troppo impegnativa per affrontarla.

Nel frattempo, Meloni rilancia con il Blue Raman Cable, l’IMEC, l’ELMED, il South H2 Corridor. Una sequenza di acronimi che suonano futuristici e inevitabilmente vaghi. Collegare l’India all’Europa passando per il Mediterraneo? Ottima idea. Ma sarebbe più credibile se nel frattempo non stessimo perdendo navi, traffici e credibilità. Il Mediterraneo non è una lavagna bianca dove si disegnano corridoi con il righello. È un campo minato dove chi si muove lentamente si fa esplodere.

Messina l’ha detto con brutalità: il settore ha bisogno di fondi veri, non di promesse. E ha bisogno di un quadro normativo che non uccida la flessibilità operativa. I carburanti alternativi? Bene. Ma servono quelli “possibili”, non quelli “impossibili”, ha specificato. Perché molti porti italiani sono incastonati dentro le città, vicini alle case, dove non si può semplicemente piazzare un serbatoio di ammoniaca e sperare che nessuno protesti. Serve una strategia energetica coerente, non l’ennesima rincorsa alla moda del momento.

E a proposito di coerenza, arriva il nodo della cantieristica. Meloni sogna una leadership italiana ed europea nel settore. Eppure, l’Europa continua a flirtare con l’idea di misure protezionistiche per salvare cantieri che hanno perso competitività. Qui Messina è chirurgico: rilanciare sì, ma non con il protezionismo. Perché se costringi gli armatori a comprare in Europa solo per ragioni politiche, ottieni due risultati. Primo: fai esplodere i costi. Secondo: alimenti un mercato parallelo fuori dai confini. È l’economia, non è ideologia.

In tutto questo, il lavoro marittimo italiano sembra il grande dimenticato. Sosteniamo economicamente i marittimi extracomunitari sulle rotte internazionali, ma ignoriamo i nostri concittadini che operano sulle tratte nazionali. Geniale. Il paradosso è che nessuno sa quanti siano davvero i marittimi italiani attivi, perché non esiste un’anagrafe digitale. L’assenza di dati come forma di governo. Una specialità della casa.

La Commissione europea ha già bacchettato l’Italia, chiedendo di uniformare le regole. Ma qui la retorica sovranista si inceppa: va bene difendere i confini, ma guai a digitalizzare un settore. Troppo scomodo sapere chi lavora davvero e chi no. Troppo facile scoprire che il problema non è Bruxelles, ma l’incompetenza cronica nel costruire politiche di lungo periodo.

Eppure, l’economia del mare in Italia vale il 12% della Blue Economy europea. È un asset strategico, uno di quelli che potrebbero cambiare radicalmente il nostro posizionamento globale. Ma se continuiamo a trattarlo come una nicchia o come un feudo clientelare dove sistemare le nomine “di sottogoverno”, allora è inutile parlare di Mediterraneo come “crocevia” e “piattaforma”. È solo retorica d’occasione.

Meloni, nel suo messaggio, ha cercato di delineare un disegno. C’è dentro tutto: energia, logistica, diplomazia, innovazione. Ma è un disegno fatto di linee tratteggiate, che si interrompono appena ci si avvicina ai dettagli. Perché il Piano del Mare 2023-2025 è stato approvato, ma il 2025 è oggi. E la seconda edizione? È una promessa, come sempre. Intanto i traghetti invecchiano, i porti arrancano, i traffici migrano.

Alla fine, il Mediterraneo rimane quello che è sempre stato: un mare difficile, affollato, conteso. Un acceleratore naturale di crisi e opportunità. Ma non perdona la lentezza. Chi si muove per secondo, ha già perso. Gli armatori lo sanno bene, i portuali lo vivono ogni giorno. Resta da capire se la politica italiana è pronta a sostituire gli slogan con decisioni. Perché, come ricordava Messina, chi controlla i mari controlla il mondo. Ma chi li ignora, scompare. Anche se continua a parlare forte.