A me pare una strun… ma una strun raffinata, degna di un designer olandese con troppe ore di sonno e un’estetica ben calibrata tra brutalismo scandinavo e nostalgia da Commodore 64. Eppure eccoci qui, a parlare del Dream Recorder, un aggeggio minuscolo quanto basti per passare da Jung a TikTok in tre passaggi: dormi, ti svegli, premi un bottone e racconti i tuoi deliri notturni a una IA che ti restituisce un videoclip da incubo, nel senso più letterale del termine.

Nulla di tutto ciò dovrebbe sorprendere, in un mondo in cui l’intelligenza artificiale ha già imparato a imitare il nostro modo di parlare, scrivere, dipingere, perfino di flirtare malamente su Tinder. Ora prova a emulare il nostro inconscio. Con risultati a metà tra un sogno lisergico anni ‘70 e una GIF compressa male. Castelli sfocati, tetti fluttuanti, fiori di luce: roba che Magritte si sarebbe fatto bastare per una carriera, ora disponibile al prezzo popolare di 285 euro e qualche spicciolo per l’elaborazione cloud. Il primo sogno industrializzato che ti costruisci con le mani, come un Lego mentale con l’ansia incorporata.

A livello tecnico, la faccenda è tanto semplice quanto inquietante. Parli. L’IA ascolta. Elabora, ricostruisce, inventa. Ma non troppo: dopotutto, sta lavorando per te, dentro i limiti del tuo racconto confuso. Se dici “ero su una barca, poi mio nonno diventava un robot e finivamo tutti in una biblioteca volante”, quello che ottieni è esattamente questo, mediato da un algoritmo addestrato su miliardi di immagini, animazioni e stili visivi. In altre parole, il tuo inconscio è appena diventato una prompt machine. Benvenuto nel regno dell’inconscio sintetico.

Eppure, sotto la superficie del gadget da hipster neurodigitale, c’è una provocazione vera. Un messaggio, anche poetico se vogliamo, che gioca con le radici della tecnologia per rivelarne il lato più… umano. Gli autori, lo studio Modem, dicono esplicitamente che non vogliono venderti pubblicità, né costruire una piattaforma, né ingabbiare la tua attenzione. L’intento dichiarato è opposto: “ambient computing”, come lo chiamava Mark Weiser ai tempi d’oro dello Xerox PARC. Una tecnologia che non si impone, ma si dissolve nel quotidiano. Invisibile, silenziosa, meditativa. Al limite dell’inutile. Ma proprio per questo preziosa.

Sì, perché in un’epoca in cui ogni device è una slot machine cognitiva che misura il suo successo in click e retention rate, un oggetto che si limita ad ascoltarti sognare, e a restituirti un’immagine imperfetta e fragile del tuo immaginario, suona quasi rivoluzionario. Non monetizza, non gamifica, non ti segue con il GPS. Si accontenta di essere costruito, usato e forse dimenticato. E a differenza delle solite startup con roadmap infinite, Modem ha messo una scadenza al progetto: 2030. Dopo, fine. Stop ai sogni digitali.

Ora, si può obiettare che tutto questo ha il sapore di un’operazione artistica travestita da hardware open source. Una performance in slow motion dove l’interfaccia è l’esperienza. E forse è proprio questo il punto. Perché il Dream Recorder non cerca davvero di mappare il tuo inconscio, ma di offrirti uno specchio distorto, come quelli del luna park. Ti fa ridere, forse riflettere. Sicuramente scorrere il feed. Ma nel farlo, ti restituisce anche una domanda scomoda: e se l’IA potesse davvero aiutarci a capire noi stessi, invece di farci solo comprare più roba?

Ovviamente il rischio di idealizzare è dietro l’angolo. Basta poco perché un esperimento del genere venga fagocitato dalla solita spirale di hype, angel investor e pitch deck con il solito font minimalista. Ma finché resta com’è, il Dream Recorder rimane un esempio raro di tecnologia che non vuole cambiare il mondo, ma solo cambiare per un istante la tua percezione del sogno. E magari farti sorridere di fronte a una clip in cui tuo cugino cavalca un elefante fluorescente sopra una replica di Notre Dame fatta di zucchero filato.

È un gadget inutile? Probabile. È un passo verso la comprensione computazionale dell’immaginario? Forse. È un oggetto affascinante? Decisamente sì. Perché, nel suo piccolo, mette in discussione il paradigma dominante del “costruiamo cose che le persone usano il più possibile”. Qui si costruisce qualcosa che puoi usare una volta al giorno, per pochi secondi, solo se ti ricordi di farlo e se hai sognato qualcosa di raccontabile. Un limite, certo. Ma anche una presa di posizione.

In un mondo in cui tutto è progettato per scalare, dominare, ottimizzare, il Dream Recorder fa il gesto più anticonformista possibile: si fa da parte. Non ti seduce con notifiche, non ti ossessiona con aggiornamenti. E quando hai registrato sette sogni, ti dice: basta così. A domani.

Certo, non risolve nulla. Non cura l’insonnia, non migliora la produttività, non ti fa diventare un guru del sonno polifasico. Però ti ricorda che c’è ancora spazio per una tecnologia che non serve a qualcosa, ma che significa qualcosa. E in un’epoca in cui ogni software ti promette miracoli e ti consegna frustrazione, anche solo questa promessa poetica, sgranata e low-res, vale il prezzo del biglietto.

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