Nel grande carnevale della Silicon Valley, ogni app che osa definirsi “rivoluzionaria” ha la stessa parabola: hype, funding, stagnazione, exit strategica. Superhuman, l’email client più sopravvalutato del decennio, sembra essere l’ultimo a finire nel frullatore delle ambizioni di un unicorno che non vuole più essere solo “un correttore grammaticale molto costoso”. Grammarly, il tool di scrittura assistita da intelligenza artificiale, ha annunciato l’acquisizione di Superhuman con un comunicato stampa che sembra più un pitch da Series B gonfiato da buzzword che un piano industriale solido. Ma sotto la superficie lucidata, c’è qualcosa di interessante, forse persino pericoloso.
Partiamo da una premessa inconfutabile: la posta elettronica è la piaga moderna dell’umanità digitale. Un manager medio passa oltre tre ore al giorno nella sua casella email, il 90% delle quali a leggere comunicazioni irrilevanti o a rispondere a thread che sembrano esercizi di logorrea aziendale. Grammarly lo sa bene. È proprio lì, tra saluti corporate e CTA passive-aggressive, che il suo AI assistant trova terreno fertile, revisionando oltre 50 milioni di email a settimana per professionisti in tutto il mondo. L’acquisizione di Superhuman non è quindi un colpo di testa, ma una mossa chirurgica: impossessarsi direttamente del canale principale in cui il suo prodotto è già onnipresente. Perché limitarsi a essere un plugin quando puoi diventare la piattaforma?
Superhuman, va detto, era nata con premesse quasi religiose. Velocità supersonica, UX minimale, prezzo elitario. Costava come un abbonamento a Bloomberg, ma prometteva di farti sentire come Tony Stark nel gestire l’inbox. Alla fine, si è ritrovata ad essere l’app feticcio di una nicchia di venture capitalist e product designer narcisisti, più interessati alla scorciatoia che al contenuto. Non ha mai davvero scalato. Ma aveva qualcosa che Grammarly non ha mai avuto: controllo diretto sull’esperienza utente.
Ed è proprio qui che entra in gioco la parte interessante del comunicato di Grammarly. Il piano, lo dicono senza giri di parole, è diventare una piattaforma di agents, agenti intelligenti specializzati in task professionali. Non un copilota generico stile ChatGPT, ma un esercito di mini-bot focalizzati su specifiche micro-missioni: uno che scrive email di vendita, uno che prepara risposte per il customer support, uno che sforna post marketing dal nulla. Una macchina di produttività generativa distribuita tra strumenti e interfacce. Uno sciame di AI verticali che convivono dentro la tua casella email. Il sogno (o incubo) di ogni knowledge worker: non dover più scrivere nulla da sé, ma solo supervisionare l’output di entità digitali che comunicano al posto nostro.
Ora, questa strategia ha un nome: multi-agent orchestration. Ed è la parola d’ordine del 2025. Da OpenAI a Google, tutti si stanno affannando per costruire sistemi nei quali diversi agenti AI collaborano tra loro per portare a termine compiti complessi. La differenza è che Grammarly vuole farlo a partire dal flusso di lavoro più quotidiano e logorante del mondo: le email. Non è una scelta banale. L’email è ancora la colonna vertebrale silenziosa della comunicazione aziendale, ignorata solo dai teorici della produttività che passano le giornate su Slack e Notion fingendo che “inbox zero” sia uno stile di vita. Ma nel mondo reale, ogni approvazione, ogni contratto, ogni relazione con il cliente passa ancora da lì. Chi controlla le email, controlla il contesto. E chi controlla il contesto, può addestrare agenti AI migliori di chiunque altro.
A rendere il tutto più ambizioso (e potenzialmente più inquietante), è il fatto che Grammarly non sta solo comprando una nuova UI. Sta comprando un ecosistema in cui può testare e dimostrare il proprio modello multi-agente in un ambiente reale. Non più un’estensione passiva del browser che suggerisce sinonimi più eleganti, ma un cervello distribuito che riscrive interazioni professionali in tempo reale, anticipando i bisogni, offrendo risposte prima ancora che tu legga la domanda. Questo è lo scenario. E se pensi che suoni un po’ troppo simile a “Her” di Spike Jonze, non sei l’unico.
A rendere l’operazione ancora più carica di sottotesti è il fatto che nel 2023 Grammarly ha già acquisito Coda, un altro strumento di produttività (questa volta simile a Notion, ma più orientato al lavoro strutturato). Il suo CEO, Shishir Mehrotra, ex Google, è ora a capo della nuova Grammarly post-fusione. Quello che sta accadendo, quindi, è la nascita di un potenziale anti-Microsoft 365, costruito attorno all’intelligenza generativa e al principio che il contenuto aziendale non deve più essere scritto, ma solo supervisionato. Grammarly non vuole solo correggere, vuole generare, orchestrare, persino decidere. È un passaggio epistemologico sottile, ma devastante. E ci stiamo entrando con gli occhi spalancati e il cervello spento.
Il problema, ovviamente, è che più aumentiamo la produttività tramite automazione, più moltiplichiamo il rumore informativo. Ogni email scritta da un bot sarà letta da un altro bot, in una danza infinita di simulazione comunicativa in cui gli umani saranno solo spettatori stanchi. È il paradosso del knowledge work contemporaneo: strumenti che ci promettono di risparmiare tempo ci spingono a riempirlo con ancora più contenuti inutili. Grammarly dice di volerci liberare. Ma potrebbe anche solo aumentare il volume dell’infodemia, rendendo ogni messaggio più raffinato, più formale, più impersonale. Più inutile.
Il vero test sarà quindi se questa nuova architettura multi-agent sarà in grado di creare valore reale oppure solo di perfezionare l’arte della corporate bullshit. Perché se il tuo AI assistant scrive una risposta brillante a un’email scritta da un altro AI assistant, e nessuno dei due umani coinvolti la legge davvero, abbiamo semplicemente sostituito il lavoro con un rituale. Un po’ come quando i preti medievali recitavano messe in latino per contadini che non capivano una parola. La sacralità era nel gesto, non nel contenuto.
Grammarly ha la tecnologia, ha l’ambizione, ha persino l’infrastruttura per competere con OpenAI, Google o Anthropic. Ma ciò che le manca è un’ideologia del lavoro che vada oltre l’efficienza. Perché se continuiamo a misurare la produttività solo in base alla quantità di output generato, gli agenti AI diventeranno presto i nostri peggiori nemici. Non perché ci ruberanno il lavoro, ma perché ci obbligheranno a fingere di lavorare di più.
Nel frattempo, prepariamoci a ricevere email scritte in perfetto inglese, con zero errori grammaticali, tre CTA impeccabili e l’anima completamente assente. E a rispondere con un altro template generato da un agente di supporto. Il futuro della comunicazione è brillante, efficiente e totalmente disumanizzato. Benvenuti nell’inferno della produttività aumentata.