La democrazia si sta spegnendo sotto i nostri occhi, e fingere che sia colpa degli altri è l’errore più pericoloso
La regressione democratica non è una crisi passeggera. Non è nemmeno una deriva ideologica da attribuire ai soliti estremisti in giacca e cravatta. È una strategia lucida, calibrata e metodica. Una metastasi istituzionale che si diffonde lentamente, camuffata da legalità, protetta dalla noia dell’opinione pubblica e facilitata da quella miscela tossica di populismo, polarizzazione e post-verità che ormai costituisce la grammatica politica globale.
I dati del 2025 non sono allarmanti. Sono catastrofici. Mentre celebriamo anniversari costituzionali e fingiamo che “la democrazia si difenda con la partecipazione”, il numero degli stati autocratici sfiora ormai quello delle democrazie: 88 contro 91. Sembra un pareggio, ma non lo è.
Perché l’autocrazia gioca con l’arbitro a favore e controlla il pallone, lo stadio e la telecronaca. E soprattutto perché rappresenta già il regime di vita del 72% della popolazione mondiale, ovvero 5,7 miliardi di esseri umani. La democrazia non sta morendo: è già minoranza demografica.
Il problema, come sempre, è l’illusione della gradualità. L’idea che l’erosione dei diritti sia un processo reversibile, magari attraverso le urne. Ma la storia recente ci ha insegnato che le elezioni non servono a difendere la democrazia se le regole sono già truccate, se l’informazione è sotto assedio e se i poteri indipendenti sono ridotti a scenografie.
CIVICUS lo scrive nero su bianco: anche gli Stati Uniti sono oggi nella lista di sorveglianza per “libertà civiche vacillanti”. Università sotto pressione politica, fondi per la ricerca (soprattutto medica e climatica) tagliati per motivi ideologici, giudici selezionati non per competenza ma per obbedienza, executive orders usati come manganelli normativi, giornalisti e docenti trattati come nemici interni. L’idea che queste cose “non possano accadere qui” è il primo sintomo della loro inevitabilità.
Il manuale contro l’autocrazia un documento sobrio ma fondamentale scritto da un gruppo di studiosi che evidentemente ha smesso di credere nella neutralità come alibi spiega che l’erosione democratica non è mai spontanea. Non è un errore di sistema.
È un progetto preciso, che si affida a meccanismi noti: la delegittimazione del sapere scientifico, l’attacco all’autonomia della magistratura, la saturazione del dibattito pubblico con propaganda e menzogne, la normalizzazione della violenza istituzionale e la criminalizzazione del dissenso.
La regressione democratica non si manifesta con un colpo di Stato. Inizia quando un governo smette di tollerare la critica e comincia a punirla. Quando il coraggio di dire la verità viene sostituito dalla prudenza del “non è il momento”. Quando si passa dalla cittadinanza alla sorveglianza.
Un dato poco citato ma devastante riguarda la salute pubblica: nei paesi ex-democratici tornati sotto regime autoritario, l’aspettativa di vita è crollata del 2%. Non è solo una questione morale, ma biologica. L’autocrazia uccide. Uccide la scienza, l’informazione, la medicina preventiva, la trasparenza nella gestione delle crisi. E infine uccide anche le persone.
Ma la reazione, quando c’è, è spesso tardiva, confusa, individualista. Come se bastasse uno sfogo su Twitter o la condivisione dell’ennesima petizione per “fare resistenza”. Non funziona così. Il manuale suggerisce invece un approccio strutturato, quasi clinico, che parte da un presupposto scomodo: bisogna valutare il proprio livello di rischio e agire di conseguenza.
Chi può permetterselo, deve parlare. Pubblicamente, chiaramente, anche a costo di perdere followers o finanziamenti. Chi si trova in posizione intermedia deve proteggere il sapere: salvare dati, tutelare colleghi esposti, documentare gli abusi.
Chi è già nel mirino, invece, deve imparare l’arte del sabotaggio invisibile: introdurre attriti burocratici, cercare alleanze, registrare tutto. In ogni caso, ci sono azioni difensive indipendenti dal rischio, che dovrebbero diventare routine: evitare la censura preventiva, ridurre l’esposizione legale e digitale, costruire una resilienza mentale alla paranoia e al burnout. Il dissenso non può sopravvivere se crolliamo sotto il peso dello stress indotto.
E poi c’è la dimensione collettiva. Quella che spaventa di più chi governa con la paura, perché l’autocrazia si nutre della solitudine dei singoli. La disconnessione sociale è funzionale al controllo. Per questo serve ricostruire comunità di scopo, reti intersettoriali, coalizioni ibride tra attivisti, accademici, giornalisti e tecnologi.
Serve una nuova alfabetizzazione politica, che parta dai margini: non più il manuale di educazione civica scritto per studenti apatici, ma una strategia di contro-narrazione capillare, in grado di riappropriarsi dei media, degli spazi pubblici, del linguaggio. Perché la prima vittima della regressione democratica non è il Parlamento, è il vocabolario. Quando chi difende i diritti viene chiamato “radicale”, e chi li toglie si fa passare per “realista”, il gioco è già truccato.
Prepararsi alla repressione non è un gesto pessimista. È una forma di lucidità politica. Lo diceva Vaclav Havel: “La speranza non è la convinzione che qualcosa andrà bene, ma la certezza che qualcosa ha senso, indipendentemente da come andrà a finire”. Chi documenta oggi le violazioni, chi archivia prove, chi sostiene i watchdog e i media indipendenti, sta piantando semi per un possibile dopo. Perché nessun regime dura per sempre, ma ogni regime dura troppo se non lo si affronta.
C’è un paradosso inquietante, in questa fase storica. Siamo circondati da tecnologie avanzatissime, da reti globali, da strumenti di comunicazione potentissimi. Eppure la democrazia, quella vera, sembra più fragile che mai. Forse perché abbiamo confuso la possibilità di parlare con la libertà di farlo. Forse perché ci illudiamo che l’algoritmo ci salverà. Forse perché abbiamo dimenticato che ogni diritto non esercitato è un diritto in affitto, pronto a essere revocato.
La regressione democratica non è un virus esotico da studiare a distanza. È un agente patogeno già in circolo. E la sua forza non sta nella brutalità, ma nella prevedibilità. Chi vuole resistere, oggi, non può più permettersi la neutralità. O si è parte del problema, o si è parte della risposta. E restare a guardare, magari aspettando che la prossima elezione rimetta tutto a posto, è il modo più elegante per diventare complici.