Ruoming Pang se n’è andato. E non per una pausa sabbatica, una startup stealth o per coltivare ortaggi bio in Oregon. No, è passato direttamente all’altra sponda del Rubicone: da Apple a Meta. Precisamente nella nuova creatura ribattezzata Superintelligence Labs, che più che un centro R&D sembra un’operazione di chirurgia neurale contro la concorrenza. Pang era il capo dei modelli fondamentali di Apple. Quelli che non solo danno il nome alla nuova buzzword “Apple Intelligence”, ma che dovrebbero rappresentare il motore semantico dell’intero ecosistema futuro della Mela. Un colpo basso. Di quelli che fanno rumore.

Pang guidava un team di circa 100 cervelli dedicati alla costruzione dei modelli linguistici core, quelli che avrebbero dovuto animare funzioni come Genmoji, Priority Notifications, e la sintesi intelligente on-device. In teoria, la punta di diamante dell’AI nativa, quella che non dipende dai server di OpenAI o da partnership a scadenza come yogurt greco. In pratica, con la sua uscita e quella già avvenuta il mese scorso del suo vice Tom Gunter si apre un vuoto preoccupante nel cuore del progetto AI di Cupertino.

Il tempismo è imbarazzante. Solo poche settimane fa, durante la WWDC 2025, Apple aveva sbandierato con fanfare e luci da showbiz le nuove feature generative integrate nei suoi device. Ma dietro le demo patinate e la solita liturgia della “magia Apple”, già allora serpeggiava una sensazione strisciante: troppo poco, troppo tardi. E ora, con Pang che saluta e va a costruire AGI con Zuckerberg, la percezione non è più solo un sussurro. È diventata narrazione.

Certo, l’azienda di Cupertino resta colossale. Una perdita non affonda un impero. Ma qui non si parla di una figura marginale. Pang era, in termini aziendali, la mente dietro le menti artificiali. E soprattutto, la sua fuga non è un caso isolato. Fa parte di uno schema più ampio, quasi seriale, in cui Meta sta lentamente spolpando i rivali di talento, offerta dopo offerta, come un hedge fund con il fiuto della predazione sistemica.

La strategia di Meta è brutale nella sua semplicità: offrire stipendi fuori scala, equity diluito a pioggia e un’aura di futurismo radicale. È una reverse acqui-hire mascherata da rivoluzione cognitiva. Prima il 49% di Scale AI per 14,3 miliardi di dollari, ora il reclutamento selettivo di menti da Google, OpenAI, Anthropic e sorpresa sorpresa Apple. E nel frattempo, il fondatore di Scale AI, Alexandr Wang, viene issato alla guida di questa misteriosa Superintelligence Labs, un nome che suona più come un fumetto Marvel che come un centro di ricerca. Ma qui non si gioca: il piano è AGI, intelligenza generale artificiale. Cioè, tutto.

Apple, invece, sembra sempre più intrappolata in una narrazione contraddittoria. Da un lato la retorica sull’on-device AI, sulla privacy computazionale e sul controllo dell’intero stack. Dall’altro, la realtà di una partnership stretta con OpenAI, una dipendenza da GPT che – a detta di molti team interni – sta generando malcontento e confusione strategica. Le critiche arrivano da dentro: manca una direzione chiara, un’identità tecnica autonoma. E ora, con Pang fuori dai giochi, questa impressione si fa ancora più evidente.

Siri, che doveva essere la regina del riconoscimento vocale e dell’interazione naturale, è diventata il simbolo dell’incompiuto. Persino le battute dei late night show americani hanno cominciato a fare ironia: “Hey Siri, fammi una battuta sull’AI, ma senza andare in panico”. In questo contesto, ogni uscita di scena rilevante viene amplificata all’ennesima potenza. Perché non è solo una questione di numeri. È una questione di percezione. E nel mondo dell’intelligenza artificiale, la percezione vale quanto l’infrastruttura.

Mentre Apple è alle prese con la transizione dal modello chiuso e verticale a un’architettura più flessibile e interdipendente, Meta costruisce il suo arsenale umano come se stesse preparando lo sbarco su Marte. Con una differenza: qui il carburante non è il cherosene, ma l’accesso esclusivo alla nuova materia prima del XXI secolo – i cervelli capaci di progettare AGI. E per quelli, non esistono supply chain. Li compri, li strappi, li persuadi. A qualunque costo.

C’è chi dirà che Meta stia iperinvestendo in modo insostenibile, drogando il mercato dei salari e creando una bolla di superstar che potrebbe esplodere. Può darsi. Ma intanto costruisce. Codice, infrastrutture, prototipi. Apple, invece, sembra sempre più impegnata in un esercizio di stile, dove la forma conta più della sostanza e dove l’AI è ancora subordinata al design. Ma in questa corsa, l’estetica non basta.

La vera differenza è nell’ambizione. Meta vuole AGI. Apple vuole migliorare le notifiche. Meta parla di coscienza artificiale, co-agenti autonomi e linguaggi emergenti. Apple parla di “esperienze fluide e contestuali”. Meta compra Scale AI. Apple compra tempo.

Nel frattempo, il rischio è che si apra un divario strutturale tra chi guida la rivoluzione e chi la insegue. E la fuga di Pang – seguita da Gunter, e forse da altri nomi non ancora emersi – è il sintomo di un’asimmetria culturale profonda. Un problema di visione, prima ancora che di tecnologia. Perché trattenere i talenti non si fa con le stock option, ma con una narrazione credibile, con una missione capace di incendiare i neuroni.

In un mondo dove l’AI si evolve esponenzialmente, le aziende non possono più permettersi modelli lineari di innovazione. E Apple, nel suo tentativo di proteggere l’ecosistema, rischia di diventare il nuovo BlackBerry: elegante, chiuso, in ritardo. Quando la storia è scritta da chi ha i dati e il codice, trattenere i talenti migliori diventa una questione esistenziale.

Non è solo Pang ad andarsene. È un intero paradigma che rischia di franare. E la domanda che resta, sospesa tra i server della Silicon Valley e le lavagne di Menlo Park, è questa: può Apple ancora permettersi di rincorrere, o ha già perso il controllo della narrativa?