
Quando Donald Trump scrive una lettera commerciale, non è mai solo una lettera. È un’arma. Un palcoscenico. Un tweet travestito da diplomazia. E stavolta, nel suo secondo atto presidenziale in stile reality show, il “tariff man” torna alla carica, spingendo l’America dentro un’altra guerra commerciale globale, con una raffica di dazi, minacce e diktat unilaterali che fanno impallidire perfino le follie della prima amministrazione. Brasile? 50 per cento. Filippine? 20 per cento. Brunei, Moldova, Iraq? Toccata e fuga. Se non hai un accordo firmato, hai una lettera firmata — ma con un dazio allegato.
Il nuovo assalto parte proprio da lì: da un’interpretazione post-fattuale del concetto di “deficit commerciale”, da un uso selettivo dei numeri e da una visione vintage dell’economia globale, tutta basata su “noi vinciamo, voi perdete”. Peccato che nel 2024, secondo i dati ufficiali, gli Stati Uniti abbiano avuto un surplus di 7,4 miliardi di dollari con il Brasile. Ma Trump non si lascia fermare da inezie contabili. Per lui, il Brasile “ruba” perché osa processare il suo amico Jair Bolsonaro. E Lula? “Irresponsabile”. Come se la politica estera fosse una rissa da talk show.
Il problema, però, non è solo lo stile. È la sostanza. Quello che Trump sta orchestrando con questa escalation è un esperimento pericoloso di “autarchia selettiva”, un tentativo di riscrivere le regole del commercio internazionale attraverso la logica del ricatto sistematico. Niente più trattative multilaterali, niente WTO, niente diplomazia commerciale. Solo lettere firmate “con i migliori auguri”, accompagnate da dazi a doppia cifra e da minacce camuffate da cortesia. È come se l’America avesse messo in modalità spam tutti i suoi partner storici.
Gli effetti sono già visibili. Il dollaro ha perso il 10 per cento da inizio anno. I mercati delle materie prime sono in fibrillazione dopo l’imposizione di un dazio del 50 per cento sul rame — metallo strategico per l’hi-tech e la transizione energetica. I piccoli importatori statunitensi sono nel panico: secondo la Camera di Commercio USA, subiranno un colpo da 27 miliardi di dollari in nuovi costi. Intanto la Cina, che ufficialmente dovrebbe essere la grande punita, riduce le esportazioni verso gli USA ma aumenta quelle verso il resto del mondo. Non male per una guerra commerciale che doveva “farci vincere”.
Dietro le quinte, le cancellerie straniere cercano disperatamente di capire il gioco. Almeno 350.000 miglia percorse dai negoziatori asiatici per corteggiare la Casa Bianca, secondo Bloomberg. Il giro del mondo 14 volte. E tutto per ottenere “frameworks” vaghi, promesse condizionate, memorandum senza valore legale. Le uniche certezze sono i dazi. È una diplomazia a senso unico, costruita su instabilità calcolata e finta flessibilità: “il limite è fermo, ma non al 100 per cento”, ha detto Trump. Cioè: “è finale, tranne quando cambio idea”.
La situazione rasenta il grottesco. Il presidente minaccia paesi con cui l’America ha alleanze storiche — Canada, Giappone, Corea del Sud, Regno Unito — allo stesso modo con cui tratta le economie marginali. Le lettere sono tutte uguali, come un copia-incolla da manuale populista: “è un grande onore inviarvi questa lettera”, “la nostra relazione non è stata reciproca”, “minaccia alla sicurezza nazionale”. Ogni frase è pensata per sembrare solenne, ma risuona come un meme mal riuscito. Concludono con “con i migliori auguri”, manco fosse un biglietto di Natale.
Nel frattempo, mentre il presidente americano gioca a Risiko commerciale, le altre potenze si organizzano. L’Unione Europea firma accordi con il Canada. Il Regno Unito con l’India. Il Sud-est asiatico stringe legami interni. È l’effetto boomerang della strategia trumpiana: isolando se stessa, l’America sta favorendo una ristrutturazione del commercio globale in cui altri diventano più attraenti, più affidabili, più prevedibili. Anche il famoso reshoring americano, la promessa di riportare la manifattura a casa, si scontra con la realtà: senza materie prime a costi sostenibili e con filiere globali già ristrutturate, i costi salgono e la competitività cala.
Eppure, Trump insiste. Per lui le tariffe non sono una misura economica, ma una narrativa. Servono a costruire l’immagine dell’America assediata, sfruttata, in guerra contro il mondo intero. È un linguaggio binario, perfetto per i social: noi vs loro. Chi non accetta l’accordo, prende un dazio. Chi accetta, prende un altro dazio ma con un sorriso. La complessità è bandita, le sfumature abolite. Quando gli chiedono perché non firma accordi veri, risponde che sono “troppo complicati”. Una frase che, in bocca al presidente degli Stati Uniti, è tutto un programma.
Il senatore repubblicano Thom Tillis lo dice chiaramente: “non abbiamo un solo accordo ratificato”. Neanche con il Regno Unito. Solo promesse, lettere, moine. La senatrice Capito aggiunge: “c’è ancora molta incertezza”. Eufemismo dell’anno. La verità è che anche nel suo stesso partito, molti iniziano a capire che l’unilateralismo compulsivo di Trump non porta a casa risultati, ma crea confusione, incertezza e isolamento. E per un paese che basa la sua potenza su alleanze, fiducia e regole condivise, è un rischio esistenziale.
Questa nuova stagione della guerra commerciale trumpiana non ha nemmeno l’alibi del “rilanciare l’industria americana”. È puro teatro politico, proiettato verso la campagna elettorale, un modo per riattivare le paure identitarie e l’illusione di un’America autosufficiente che non ha mai davvero esistito. Il mondo, però, è cambiato. E mentre Trump spedisce lettere e impone dazi come se fosse ancora il 1985, le economie emergenti si ristrutturano, le alleanze si spostano, e il baricentro del commercio globale scivola altrove.
Il paradosso finale? Più Trump tenta di “proteggere” l’America, più la espone. Non solo economicamente, ma strategicamente. Perché senza amici e senza accordi, anche la più grande economia del mondo rischia di scoprire che il protezionismo, quando diventa ideologia, è la forma più raffinata di autolesionismo.