L’annuncio è una stretta di mano elegante, ma non proprio gratuita. Quando OpenAI comunica che intende firmare il Codice di Condotta del Regolamento UE sull’AI, lo fa come un attore strategico in un teatro geopolitico dove le regole non sono solo normative, ma strumenti di potere. In un’Europa ossessionata dalla regolamentazione e impantanata nel mito della “AI sicura prima dell’AI utile”, la mossa suona come un mix di diplomazia, pressione e sottile provocazione. E non è un caso che mentre tendono la mano a Bruxelles, i vertici di OpenAI puntellino il discorso con un invito neanche troppo velato: cari europei, regolate pure, ma non dimenticate di lasciare che si costruisca qualcosa.
Per chi segue questi sviluppi con un occhio esperto, la vera notizia non è tanto la firma in sé che è su base volontaria e non vincolante ma il linguaggio usato. Le parole scelte da OpenAI sono come quelle di un partner che accetta di partecipare a una cena di famiglia ma pretende di scegliere il vino. “Ora è il momento di cambiare la narrativa”, scrivono, e cioè: basta con la burocrazia, largo all’innovazione. Il messaggio è chiaro: se l’Europa vuole rimanere rilevante nella corsa globale all’intelligenza artificiale, dovrà smettere di guardarsi l’ombelico regolatorio e cominciare a pensare come una potenza tecnologica.
Questa è realpolitik digitale, mascherata da cortesia istituzionale. Perché dietro ogni parola, c’è un piano. OpenAI, azienda americana con ambizioni globali e una crescente rete di partnership industriali, sa che la partita europea è delicata. Da un lato, il continente rappresenta un mercato chiave e un laboratorio normativo; dall’altro, è anche una minaccia potenziale, se le regole diventano troppo restrittive o troppo divergenti rispetto agli standard USA. Firmare il Codice di Condotta è un modo per sedersi al tavolo e influenzarne le dinamiche dall’interno. Una mossa geniale, in stile “se non puoi batterli, fatti invitare alla loro festa e suggerisci la playlist”.
La parte più interessante, però, non è ciò che OpenAI dice. È ciò che chiede. Chiede “semplificazione e armonizzazione”, cioè meno leggi sovrapposte, meno interpretazioni divergenti tra i 27 stati membri, meno cortocircuiti giuridici. Chiede “supporto per le prossime generazioni di aziende”, ovvero startup, scale-up e laboratori di ricerca che oggi si trovano spesso paralizzati tra fondi insufficienti e linee guida incerte. Chiede che l’Europa smetta di essere il continente dove si fanno le regole e si perdono le gare, dove si scrivono trattati ma non si sviluppano piattaforme globali.
Qui si gioca una partita culturale. Perché mentre gli Stati Uniti si muovono a colpi di open source strategico, grandi fondi VC e consolidamenti industriali tra Big Tech e AI lab, l’Europa continua a credere che basti avere un codice etico per vincere la corsa all’innovazione. È come se, nel bel mezzo di una rivoluzione industriale, si cercasse di regolamentare le locomotive prima ancora di costruire i binari.
La firma di OpenAI sul Codice non è quindi solo un segnale di conformità, ma un’azione di lobbying ad alto livello. È una dichiarazione che suona come: ci stiamo, ma vogliamo riscrivere insieme le regole del gioco. E il fatto che lo facciano adesso, prima che il Codice sia ufficialmente approvato dal nuovo EU AI Board, indica che OpenAI non vuole subire l’Europa, ma plasmarla.
La domanda che sorge spontanea è: chi sarà il prossimo? Perché se OpenAI ha aperto la pista, altre aziende non vorranno restare indietro. Anthropic, ad esempio, potrebbe essere tentata di firmare per non sembrare il “cattivo della classe”. Google DeepMind, pur essendo britannico-europeo per nascita e globalista per vocazione, dovrà decidere se partecipare al teatro continentale o restare alla finestra. Meta, che gioca la carta dell’open source per rilanciare la propria immagine nel campo AI, potrebbe vedere nella firma un’occasione per riabilitarsi a Bruxelles dopo anni di tensioni. E poi ci sono i cinesi – Tencent, Huawei, Baidu – che osservano, prendono appunti, ma difficilmente si piegheranno a un codice che sentono estraneo al loro modello di governance tecnologica.
Ma attenzione: firmare il Codice di Condotta non significa necessariamente rispettarlo. In un contesto dove la sorveglianza e l’applicazione sono ancora fumose, molte aziende potrebbero firmare per fare bella figura, partecipare ai tavoli e poi spingere per annacquare le parti più scomode. È un po’ come presentarsi a una riunione di condominio solo per votare contro il bilancio. La firma è il biglietto d’ingresso, non la garanzia di buona condotta.
Eppure, per l’Europa, ogni firma conta. Ogni adesione è una medaglia da mostrare al mondo per dire: “vedete? Le Big Tech ci prendono sul serio”. E questa sete di legittimazione è forse il punto più vulnerabile della strategia europea. Perché nella corsa all’intelligenza artificiale, chi ha bisogno di essere riconosciuto spesso finisce per negoziare al ribasso. E chi, come OpenAI, sa giocare su più tavoli contemporaneamente, riesce a influenzare le regole senza mai doverle subire completamente.
Il vero nodo, allora, non è chi firmerà per secondo o per terzo. Il nodo è capire se l’Europa userà queste firme come punto di partenza per costruire un ecosistema competitivo, oppure come trofeo regolatorio da esibire nelle conferenze. La differenza è sottile, ma sostanziale. Nel primo caso, l’Europa potrebbe davvero diventare protagonista della nuova rivoluzione cognitiva. Nel secondo, rischia di restare un’arbitro senza squadra.
Nel frattempo, OpenAI se la ride. Firma, suggerisce, influenza. Come chi, in un mondo di burocrati, si presenta vestito da innovatore e riesce a sembrare il più serio di tutti.