La dichiarazione più sorprendente non è che Jensen Huang, CEO di Nvidia, abbia detto che la Cina non può usare le sue GPU. È che abbia affermato “non dobbiamo preoccuparci” davanti a una CNN che, come tutta la stampa americana, è ormai abituata a recitare il mantra della sicurezza nazionale come un dogma da catechismo bellico. Nessuno in sala ha riso. Avrebbe potuto essere uno sketch satirico, se non fosse che dietro quella frase si nasconde una delle operazioni geopolitiche più ipocrite del decennio: il divieto americano di esportazione di tecnologia AI verso la Cina. Una guerra commerciale mascherata da moralismo digitale, che rischia di trasformarsi in un gigantesco autogol strategico.

Secondo lo stesso Huang, la Cina non si affida più alla tecnologia americana perché “potrebbe essere limitata in qualsiasi momento”. Il punto è lì. Non si tratta di evitare il rischio, ma di eliminare la dipendenza. Costruisce, replica, anticipa. Ogni nuova restrizione sulle GPU di fascia alta ha un effetto meccanico: alimenta l’urgenza cinese di sviluppare una filiera autonoma. La reazione è più ingegneristica che politica, più pragmatica che ideologica. È l’arte del reverse engineering elevata a strategia nazionale.

Nel frattempo Nvidia perde miliardi di dollari in fatturato. O meglio, li ristruttura. Le esportazioni dirette vengono limitate, ma Taiwan resta il canale principale. Proprio lì Huang ha annunciato la costruzione di un nuovo “AI supercomputer”, un nome diplomaticamente ambiguo. Abbastanza vago da non irritare i falchi del Congresso, ma sufficientemente chiaro da far capire che i chip continueranno a fluire. Non direttamente a Pechino, ma attraverso rotte parallele. Il silicio è apolide.

La contraddizione è talmente palese che sembra studiata da uno sceneggiatore di House of Cards. Gli Stati Uniti impongono restrizioni sempre più severe, ma contemporaneamente celebrano Nvidia come simbolo della supremazia tecnologica americana. Trump si fa fotografare con Huang, il primo CEO a guidare un’azienda verso i 4 trilioni di dollari di capitalizzazione. Un dettaglio non secondario: gran parte di quella crescita è stata alimentata dalla domanda cinese. Una fame di GPU che, privata del fast food americano, si sta trasformando in produzione gourmet locale.

La retorica della sicurezza nazionale genera una situazione quasi comica. Da un lato si paventa il pericolo che le tecnologie AI cadano in mano all’esercito cinese. Dall’altro si chiudono le porte al mercato che rappresenta il 40% della domanda globale di semiconduttori. È come vietare l’acqua in nome della prevenzione delle inondazioni. L’effetto non è la sicurezza. È la sostituzione. Mentre l’America vieta, la Cina copia e migliora.

Nel silenzio dei comunicati ufficiali, Pechino agisce. Da Huawei a Biren, da Alibaba Cloud a Zhipu.ai, l’ecosistema AI cinese sta vivendo un’esplosione alimentata proprio dalle sanzioni occidentali. Ogni embargo viene metabolizzato e trasformato in accelerazione. Il risultato non è un contenimento, ma una biforcazione dell’innovazione. Due mondi paralleli che corrono verso lo stesso traguardo, ma con logiche radicalmente diverse.

Nvidia, come tutte le aziende della Silicon Valley, non vuole la guerra. Vuole il mercato. Il capitalismo non si nutre di ideologia, ma di margini. Huang non sta facendo diplomazia. Sta facendo conti. Quando dice “non dobbiamo preoccuparci”, non sta rassicurando. Sta minacciando. Se l’America continua a blindare il suo know-how, sarà la Cina a crearselo da sola. E quando lo avrà, non lo mollerà più.

Taiwan Semiconductor Manufacturing Company resta il vero cuore pulsante del potere tecnologico. Tutti i chip avanzati, quelli su cui si addestrano i modelli che muovono ChatGPT o Gemini, vengono prodotti lì. Un’isola a un tiro di schioppo dalla costa cinese, considerata territorio ribelle da Pechino. Il rischio geopolitico è così grande che nessuno osa stimarlo nei piani industriali, ma intanto Nvidia ci investe miliardi. Perché? Perché non ha scelta. Perché la manifattura americana è un miraggio, nonostante gli annunci patriottici della Casa Bianca.

Il protezionismo tecnologico americano sta diventando un’arma a doppio taglio. Serve più a rassicurare l’elettorato interno che a contenere una minaccia esterna. Intanto, i laboratori cinesi pubblicano ricerche all’avanguardia, i loro modelli open source iniziano a essere adottati anche in Occidente, e il divieto americano si sta rivelando un acceleratore non intenzionale di competenza cinese.

La questione non è se la Cina stia copiando Nvidia. La questione è quando smetterà di farlo perché avrà qualcosa di meglio. Uno stack completo, interamente autarchico, con framework, compiler, hardware e software progettati per funzionare senza bisogno dell’Occidente. Un’AI con caratteristiche proprie, ottimizzata per esigenze politiche più che di mercato. Un mondo parallelo, ma perfettamente funzionante. Non è fantascienza. È roadmap.

La Silicon Valley si trova nel mezzo di una nuova Guerra Fredda, ma stavolta le bombe sono algoritmi e le alleanze non si costruiscono con i trattati, ma con le licenze software. I politici giocano a Risiko con le GPU mentre l’intelligenza artificiale evolve su scala globale, immune ai confini. Ogni giorno che passa senza accesso al mercato cinese è un giorno in cui Pechino si emancipa. Il prezzo? Forse l’America se ne renderà conto quando sarà troppo tardi.

Huang lo sa. E quando sorride alla CNN dicendo “non dobbiamo preoccuparci”, probabilmente sta cercando di mascherare una preoccupazione enorme. Perché sa benissimo che il vantaggio competitivo americano non è eterno. E che il prossimo impero del silicio potrebbe non parlare inglese.