Art and the science of generative AI: A deeper dive

Siamo ossessionati dalla performance dei modelli, dai benchmark, dai paper che urlano “abbiamo battuto GPT di 3 punti percentuali nel reasoning”. Ma il vero scontro non si gioca nei grafici colorati che girano su Twitter, si gioca su una domanda molto più scomoda: chi è l’autore quando l’intelligenza artificiale diventa co-creatrice? Non è retorica accademica, è la battaglia che deciderà il valore stesso dei contenuti nei prossimi anni. L’autorialità nell’intelligenza artificiale non è solo un tecnicismo legale, è un terremoto culturale, economico e politico che stiamo fingendo di ignorare, e sì, la parola giusta è fingendo, perché sappiamo tutti che questa discussione è inevitabile, ma ci fa comodo lasciarla sospesa finché i soldi girano.

Cominciamo con la creatività AI, che è già una bestemmia per i puristi. Cosa significa “controllo umano significativo” in un workflow dove metà delle idee arrivano da un algoritmo addestrato su miliardi di opere altrui? Se l’AI mi suggerisce 100 varianti di un titolo, io ne scelgo una, correggo due aggettivi e poi la pubblico, sono io l’autore o sono un curatore digitale che firma con presunzione un lavoro ibrido? Qualcuno direbbe che la creatività è nel processo, non nel risultato. Ma se il processo viene delegato, stiamo ancora creando o stiamo semplicemente orchestrando un’orchestra di silicio? È qui che il paper di cui parlo piazza la sua mina: l’AI non ruba la creatività, la deforma. E la vera domanda è se questa deformazione sia un’evoluzione o un lento suicidio estetico.

Non è un caso che il punto più tossico di tutta questa storia sia il training data. Dovremmo risarcire gli artisti quando i loro stili vengono metabolizzati dai modelli? È più “furto culturale” o semplice “evoluzione tecnologica”? Chi dice che non è furto dovrebbe spiegare perché, se domani un algoritmo campiona per mesi solo i quadri di un pittore vivente, producendo immagini indistinguibili, quel pittore non dovrebbe almeno ricevere un compenso o un riconoscimento. La verità è che ci siamo abituati a considerare internet un grande supermercato gratuito da cui attingere, ma quando il supermercato diventa una macchina che genera valore miliardario, improvvisamente l’etica torna di moda. Ironico, vero? Spendiamo ore a difendere il software open source, ma ci zittiamo quando si tratta di difendere gli autori che generano bellezza visiva o musicale.

Qui arriva il nodo del copyright AI. Quanto basta premere un pulsante per definirsi autore? Davvero basta scrivere un prompt ingegnoso per reclamare la paternità? Il paper, con una lucidità quasi cinica, mette il dito nella piaga: il nostro intero concetto di copyright è costruito su un mondo in cui l’autore è uno, umano, indivisibile. Ma l’intelligenza artificiale distrugge questa narrazione. Non puoi assegnare il copyright a una macchina, ma puoi assegnarlo a qualcuno che la guida. Peccato che questa guida, nella maggior parte dei casi, sia un’illusione: chiunque abbia usato modelli generativi sa che la parte più originale non è nel prompt, è nei miliardi di pesi addestrati su opere di altri. Quindi stiamo premiando chi digita meglio, non chi crea davvero. Serve un nuovo framework, e serve subito, ma chi ha davvero interesse a scriverlo quando il caos attuale è così redditizio?

Il problema della disinformazione rende tutto ancora più grottesco. L’AI sta già producendo articoli, immagini e video così convincenti da erodere la fiducia nel concetto stesso di “autentico”. I watermark e le tecnologie di tracciamento dell’origine dei contenuti vengono sbandierati come panacea, ma è una bugia comoda. Ogni strumento di tracciamento verrà aggirato, perché il mercato nero dell’AI generativa è già una realtà. Fidarsi delle etichette “generated by AI” è come fidarsi dei bollini bio nei mercati clandestini: rassicurano chi non vuole vedere il problema, non chi lo capisce. Qui il paper è spietato: la vera difesa non è tecnologica, è culturale. Se il pubblico non impara a dubitare, nessuna etichetta lo salverà. Ma il pubblico non ha nessun incentivo a imparare, e i grandi laboratori di AI non hanno nessun incentivo a insegnarglielo.

Poi c’è il costo che nessuno vuole pagare. Ogni immagine generata, ogni pezzo di testo che scorre su LinkedIn, consuma energia, brucia carbonio, pesa sull’infrastruttura planetaria. Ma parliamo tutti come se la generazione infinita di contenuti fosse un atto neutrale, quasi ecologico. Non lo è. L’intelligenza artificiale generativa ha un costo ambientale che sta esplodendo e la concentrazione del potere in poche mani lo rende ancora più inquietante. Pochi laboratori controllano i modelli più avanzati, decidono chi può usarli, come e per cosa. È una dittatura dolce, un’oligarchia del silicio che distribuisce l’illusione di democrazia creativa mentre tiene stretti i brevetti e i dataset. Pensare che questo non influenzerà la definizione stessa di autorialità è da ingenui.

Il paper non offre risposte, e meno male. Le risposte semplici sono il veleno di questo dibattito. La sua forza è nelle domande, domande che ti si attaccano al cervello. È accettabile che l’AI diventi una coautrice invisibile? È etico creare valore miliardario su stili e opere senza consenso? Quanto tempo abbiamo prima che il concetto di “autenticità” diventi una barzelletta? Ogni volta che scrolli un’immagine virale o leggi un testo generato, dovresti chiedertelo. Ma non lo fai. Nessuno lo fa.

C’è un passaggio del paper che adoro per la sua cattiveria implicita. Dice più o meno così: “la creatività umana non è morta, è solo diventata pigra”. È un colpo basso ma ha ragione. Ci stiamo adattando troppo velocemente all’idea che non serva più sbagliare, cancellare, riprovare. L’AI ci toglie l’errore e con esso la bellezza accidentale che nasce dall’imperfezione. Ma non è colpa della macchina, è colpa nostra. Preferiamo la comodità all’intuizione.

Questa discussione sull’autorialità nell’intelligenza artificiale è il vero terreno di scontro del prossimo decennio. Non sono i benchmark, non sono i parametri. È la ridefinizione della creatività e del valore culturale. Se non scriviamo ora nuove regole, qualcun altro le scriverà per noi. E non saranno gli artisti a dettarle, saranno i laboratori e le piattaforme che monetizzano ogni pixel generato.

Ironia della sorte, chi legge questo articolo probabilmente sta già pensando di chiederlo a un chatbot: “riassumimi tutto in 3 punti chiave”. Ecco il cortocircuito perfetto. Anche la riflessione critica sull’AI finisce per essere mediata dall’AI. Forse è davvero troppo tardi per salvare l’idea romantica di autorialità. Ma se anche fosse, almeno smettiamo di mentirci. Fingere che nulla stia cambiando è il modo più veloce per consegnare il futuro creativo a un pugno di server