Trump non è il tipo da discorsi accademici sulle meraviglie dell’intelligenza artificiale. Quando dice “Winning the AI Race”, lo dice come un generale che parla ai suoi soldati prima dell’assalto. Il 23 luglio, durante l’evento organizzato da David Sacks, il presidente americano non venderà sogni ma strategie. Perché in questo momento l’AI non è un hobby da nerd, è una guerra silenziosa in cui il vincitore controllerà l’economia mondiale per i prossimi trent’anni. La differenza tra vincere o perdere non si misurerà in brevetti ma in centrali elettriche, miliardi di dollari e capacità di elaborare dati più velocemente di chiunque altro. “Se non siamo i primi, siamo i secondi, e i secondi non comandano il mondo”, avrebbe detto in privato a un noto venture capitalist della Silicon Valley. Una frase brutale ma tremendamente efficace, che riassume perfettamente la mentalità con cui Trump sta riscrivendo il concetto di leadership tecnologica.

Il cuore della sua visione è quasi ossessivo nella sua semplicità. Più investimenti privati, meno regolamentazioni, più energia. Niente comitati etici, niente regolatori a rallentare il processo. Gli Stati Uniti devono alimentare data center come fossero reattori nucleari, pompando elettricità e dollari in un sistema che non può permettersi pause. Trump insiste da settimane che la produzione energetica va potenziata, anche spingendo nuove trivellazioni e accelerando la costruzione di centrali a gas e nucleari. Chi si scandalizza non ha capito che, per lui, l’intelligenza artificiale è un asset strategico, non un semplice settore industriale. Ogni server è un’arma, ogni GPU un proiettile. E la Cina, il grande rivale, sta accumulando munizioni. Questa è la narrativa che Trump martellerà davanti a telecamere e investitori il 23 luglio. Non un discorso per rassicurare, ma un invito a schierarsi.

Wall Street ha già risposto prima ancora delle parole ufficiali. NVIDIA sale come se stesse vendendo oro, AMD spinge l’acceleratore con un +8% che sembra quasi un’anticipazione del discorso presidenziale, CoreWeave raddoppia i suoi sorrisi mentre Oracle si muove con la discrezione di chi sa che il vero guadagno arriverà a lungo termine. Il progetto Stargate, quell’infrastruttura mastodontica da 500 miliardi di dollari prevista entro il 2029, è il perfetto simbolo di questo momento. Non è un semplice investimento, è un segnale geopolitico. Chi controlla i server di Stargate controllerà una fetta enorme dell’economia digitale globale. E Trump lo sa.

La mossa di riprendere le esportazioni verso la Cina con le GPU H20 di NVIDIA è quasi comica nella sua ironia: da un lato Trump predica la supremazia americana, dall’altro permette a un’azienda simbolo dell’AI americana di fare affari con il rivale strategico. Ma è qui che il personaggio mostra la sua natura più spregiudicata. Non è un idealista, è un negoziatore. Ogni concessione è temporanea, ogni licenza può essere revocata. L’importante è che l’America non resti mai a corto di chip e di denaro. La sua dottrina è chiara: se serve vendere GPU per mantenere NVIDIA in cima al mondo, si vende. Poi, quando la concorrenza è dipendente da noi, si chiude il rubinetto. Cinico? Certo. E proprio per questo tremendamente efficace.

Il discorso di Pittsburgh non sarà solo un annuncio tecnico ma un atto di propaganda economica. Trump userà la retorica come un’arma psicologica. Parlerà di “jobs” e “growth” per tranquillizzare la middle class, ma in realtà si rivolgerà a chi controlla i capitali. La Silicon Valley, i fondi sovrani, le grandi banche d’investimento. A loro lancerà un messaggio quasi ipnotico: investite ora o resterete fuori dal più grande trasferimento di ricchezza dell’era moderna. Non c’è spazio per i timidi. E mentre i burocrati europei continuano a scrivere regolamenti da migliaia di pagine, gli Stati Uniti stanno già costruendo i server che addestreranno le AI che governeranno i mercati di domani.

Chi pensa che tutto questo sia solo propaganda politica non ha capito il contesto. Trump sta ridefinendo la leadership tecnologica come un’estensione naturale della leadership politica. Non gli interessa se l’intelligenza artificiale creerà o distruggerà posti di lavoro a lungo termine, non è quello il punto. Il punto è che chi controlla l’AI controllerà i flussi di dati, l’economia digitale, la sorveglianza globale e, di conseguenza, la politica internazionale. Gli Stati Uniti devono essere quell’attore dominante. Non per altruismo, ma per convenienza. Trump non lo dice apertamente, ma il sottotesto è chiaro: in questa partita non esiste il pareggio, e chi perde obbedirà alle regole scritte dal vincitore.

Il 23 luglio, davanti a platee e telecamere, Trump non lancerà un appello, lancerà un ultimatum. “O investite con noi, o resterete indietro”. Sarà un discorso breve, tagliente, quasi arrogante, ma è esattamente ciò che gli investitori vogliono sentire. L’intelligenza artificiale non è più un laboratorio, è un’arena. E Trump è entrato nell’arena con il sorriso di chi sa già di avere vinto.