Donald Trump, l’uomo che ha trasformato la politica americana in uno show senza pause, torna a far parlare di sé con una nuova impresa destinata a infiammare dibattiti globali: la sua candidatura al Nobel per la pace. Mentre il mondo fatica a tenere il passo con i suoi tweet incendiari e le politiche “America first”, ecco che il tycoon si lancia in una corsa per il premio più prestigioso al mondo, trasformando un’istituzione storica in un campo di battaglia politico. Il risultato? Un mix di ironia, scetticismo e propaganda da manuale.

Nessuno, forse, avrebbe mai immaginato che un uomo con uno stile così poco convenzionale, spesso accusato di fomentare divisioni anziché risolverle, potesse aspirare a un premio che premia “chi fa di più per la pace tra le nazioni”. Eppure Trump, sostenuto da alcune figure politiche chiave – da Netanyahu al governo pachistano, fino a leader africani come il presidente del Gabon – riesce a tenere viva la speranza nei suoi sostenitori con quella che sembra più una strategia di marketing politico che un genuino impegno diplomatico.

La storia di Trump con il Nobel inizia già dal suo primo mandato, quando fu nominato per i negoziati con la Corea del Nord, per poi ricevere nuovi supporti in relazione agli “Accordi di Abramo”, che hanno normalizzato le relazioni tra Israele e alcuni paesi arabi. Ma fino a oggi, il riconoscimento non è arrivato. Forse perché, come osserva Dan Smith dello Stockholm International Peace Research Institute, la definizione di “pace” adottata dal Comitato Nobel è sfuggente e si evolve con i tempi e la composizione del comitato. Per ora, il contributo di Trump non sembra abbastanza solido.

Il suo “go big or go home” si manifesta in iniziative di grande impatto, dalle tariffe economiche unilaterali, che più di una volta hanno fatto tremare alleanze storiche, alla politica di “personal diplomacy” in zone caldissime come Ucraina, Medio Oriente, India e Pakistan. Nel conflitto ucraino, però, l’impressione è che Trump abbia accumulato più problemi che soluzioni. Il suo stop alle vendite di armi, le tensioni con Zelensky e la retorica spesso incendiaria suggeriscono un coinvolgimento altalenante, capace di sollevare dubbi sulla sua reale capacità di “fare pace”.

La complessità degli equilibri mediorientali è un altro terreno dove Trump ha messo i piedi con un approccio altrettanto controverso. Da una parte, il sostegno incondizionato a Israele nella guerra a Gaza, dall’altra la mediazione per il rilascio di ostaggi e attacchi mirati all’Iran. Ma il mix tra interventi militari e tentativi diplomatici ha finito per suscitare critiche forti, e il numero di vittime civili a Gaza, oltre 57.000 secondo fonti locali, mette in discussione la sua narrazione da “pacificatore”.

Quando si passa all’Asia, la sua presunta mediazione nel cessate il fuoco tra India e Pakistan sembra più un’autocelebrazione che un fatto realmente riconosciuto dai protagonisti. In Africa, invece, la firma di un accordo di pace tra Congo e Rwanda appare l’unico concreto successo diplomatico di rilievo in questo secondo mandato. Ma l’ombra di una politica complessiva meno pacifica torna a farsi largo se si considerano i commenti di esperti come John Feffer dell’Institute for Policy Studies, che accusa Trump di “avere sangue sulle mani” per le morti in Ucraina e per le sue politiche che, secondo lui, indeboliscono gli sforzi umanitari e la cooperazione internazionale.

La rivalità personale con Barack Obama si intreccia in questa vicenda come un sottotesto non da poco. Trump, mai capace di dimenticare l’assegnazione del Nobel ad Obama nel 2009, ha spesso usato il premio come monito polemico, arrivando a suggerire che gli sarebbe stato assegnato “in 10 secondi” se solo fosse stato lui al posto di Obama. Un’ossessione che tradisce una volontà più di rivalsa personale che di reale dedizione alla pace.

Le storie dei Nobel controversi, come quello assegnato a Henry Kissinger per il trattato di pace in Vietnam, mostrano come il premio non sia mai stato immune da dibattiti accesi e scelte discutibili. Forse, in questo senso, la candidatura di Trump rappresenta un capitolo ulteriore nella lunga saga di come la politica e la pace si intreccino, spesso in modo ambiguo e complicato.

In definitiva, l’idea che il Nobel per la pace possa essere conquistato con tweet, minacce tariffarie o strategie unilaterali sembra un azzardo troppo grande. La pace, quella vera, richiede pazienza, costruzione di fiducia e spesso rinuncia a facili vittorie mediatiche. E in questo panorama, Trump rimane un protagonista tanto affascinante quanto divisivo, capace di attirare nomination ma anche di suscitare dubbi radicali sul senso stesso del premio.

Forse la lezione più interessante da questo caso è che il Nobel per la pace, con tutte le sue contraddizioni, continua a riflettere i tempi e i protagonisti del mondo reale, dove la linea tra eroe e provocatore è spesso sottile e sfumata. E in questo teatro, Trump si conferma come uno dei personaggi più controversi, destinato a far discutere a lungo, Nobel o no.