È un colpo da maestro, o forse una mossa disperata, quella che Google ha appena giocato con Google Photos AI. La piattaforma con oltre 1,5 miliardi di utenti, fino a ieri un archivio patinato di ricordi digitali, si trasforma improvvisamente in un laboratorio di creatività generativa. E non è solo un aggiornamento tecnico: è un messaggio chiaro al mondo. L’intelligenza artificiale non è più un gadget per smanettoni, è un passatempo per masse annoiate. Perché? Perché quando puoi trasformare la foto del tuo cane in un’animazione 3D con un click, l’AI smette di essere misteriosa e diventa un giocattolo.
Il nuovo “Create” tab è un manifesto ideologico travestito da funzionalità. Centralizzare tutti gli strumenti creativi in un unico spazio non è solo una scelta di design, è un modo per controllare il comportamento dell’utente. Google vuole che tu smetta di archiviare foto e inizi a sperimentare, producendo dati utilissimi per addestrare ulteriormente i suoi modelli. Il bello è che lo fai volontariamente, persino divertendoti. Gli algoritmi sono bravi a persuadere. Ti chiedono un innocente pollice in su o in giù per “migliorare il servizio”, ma in realtà stanno raccogliendo feedback comportamentali su larga scala. La stessa logica che ha reso irresistibile TikTok.
La funzione più chiacchierata è quella che trasforma una semplice immagine in un breve video di sei secondi. Sembra poco, ma dietro c’è il motore Veo 2, lo stesso che alimenta YouTube Shorts, e la promessa è quella di animare i tuoi ricordi come mai prima d’ora. Il paragone con MyHeritage è inevitabile, ma la differenza sta nella scala: MyHeritage era un giocattolo nostalgico, Google Photos è un ecosistema. Il prompt “I’m feeling lucky” è quasi una provocazione, un richiamo ai vecchi tempi del motore di ricerca, ma con un retrogusto ironico. Tradotto: lascia fare tutto a noi, l’AI deciderà per te il miglior modo per reinventare i tuoi ricordi.
Il vero colpo di scena, però, è il Remix. Alimentato dal modello Imagen, trasforma qualsiasi foto in anime, sketch, comic art o addirittura in rendering pseudo 3D. In pochi secondi, il tuo volto può diventare quello di un personaggio uscito da un fumetto giapponese. “Arte generativa per tutti” è il sottotesto. E sì, Google ci tiene a precisare che ogni immagine sarà marcata con il watermark invisibile SynthID, tanto per placare i moralisti che gridano al rischio deepfake. Peccato che nessuno, davvero, si fermerà a controllare un watermark invisibile mentre scrolla la galleria di foto.
La strategia è sottile. Ogni esperimento creativo, ogni remix, ogni micro-video non è solo un contenuto nuovo, è un altro mattoncino per rafforzare la posizione di Google nel mercato dell’AI generativa immagini. La concorrenza, da Midjourney a Runway, è focalizzata sui professionisti creativi; Google punta sulle mamme che vogliono animare la foto del primo compleanno del figlio. E questo, in termini di dati e scala, vale oro. È il classico approccio alla Silicon Valley: democratizzare una tecnologia per trasformarla in business.
C’è un dettaglio che pochi notano, ma è cruciale. L’aggiornamento di Google Photos coincide con il rollout di strumenti simili su YouTube Shorts, e in estate arriverà Veo 3, ancora più avanzato. Significa che il confine tra foto e video, tra archivio personale e contenuto social, è destinato a sparire. Se i tuoi ricordi diventano “video remixati” perfetti per Shorts, non ti stai più limitando a conservare un ricordo, lo stai trasformando in intrattenimento condivisibile. È l’ennesimo modo con cui Google cattura il tempo dell’utente, il bene più prezioso nel mondo digitale.
La retorica ufficiale parla di “sperimentazioni”, ma è evidente che queste funzioni sono il preludio a qualcosa di più grande. Google non sta solo giocando con i filtri carini. Sta trasformando Google Photos AI in una piattaforma di creazione contenuti, sfruttando la pigrizia creativa di chi preferisce un clic a ore di editing. E se ti sembra poco, prova a immaginare cosa succederà quando gli algoritmi inizieranno a suggerirti automaticamente remix e video personalizzati. A quel punto, la linea tra scelta umana e manipolazione algoritmica sarà più sottile di un watermark invisibile.
Curioso, vero, come il colosso che per anni ci ha detto “non siamo un social network” stia lentamente spingendo ogni suo prodotto verso la logica della condivisione pubblica? Oggi trasformi la foto della tua colazione in un fumetto, domani il sistema ti suggerisce di postarla su Shorts per ottenere like. È la stessa dinamica di sempre: ci convincono che è divertimento, mentre in realtà è un sofisticato meccanismo di acquisizione dati e fidelizzazione. Ma non preoccuparti, puoi sempre mettere un pollice in giù se non ti piace il risultato. Loro ringrazieranno comunque.
