Quando un PowerPoint datato 1 luglio finisce nelle mani giuste, succede che improvvisamente diventa una bomba informativa. Secondo quanto riportato dal Washington Post, il Dipartimento per l’Efficienza Governativa, noto come DOGE (sì, il nome evoca un meme eppure è drammaticamente reale), avrebbe sviluppato un nuovo strumento basato su intelligenza artificiale con un obiettivo tanto semplice quanto incendiario: eliminare metà delle normative federali attualmente in vigore. Non semplificare. Non riformare. Tagliare. E farlo entro il primo anniversario del ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, come se il tempo per “fare pulizia” fosse quello necessario per un ciclo presidenziale accelerato. Siamo davanti a una deregulation-by-AI, chirurgica e cieca al contempo.
Lo strumento, chiamato DOGE AI Deregulation Decision Tool, sarebbe già stato utilizzato per revisionare le regolamentazioni del Dipartimento per lo Sviluppo Urbano e per scrivere, udite udite, il “100% delle deregolamentazioni” all’interno del Consumer Financial Protection Bureau. A quanto pare, i burocrati umani si sarebbero fatti da parte per lasciare che un algoritmo redigesse interamente il testo dei nuovi vuoti normativi. L’idea è che su circa 200.000 regolamentazioni federali, il sistema sia in grado di identificare automaticamente quelle “non più richieste dalla legge”. Una frase che suona apparentemente neutra ma che nasconde l’ideologia feroce del taglio per il taglio, della semplificazione come forma di demolizione.
La questione, ovviamente, non riguarda solo l’efficienza. L’intera faccenda è un test ideologico e tecnologico insieme. In un’epoca in cui l’AI viene discussa in termini di bias etici, responsabilità e impatti sul lavoro, DOGE lo utilizza come motosega digitale, uno strumento per “snellire” la macchina federale secondo i parametri opachi e automatizzati di un modello linguistico. Non si tratta di razionalizzazione, ma di una forma estrema di privatizzazione epistemologica, dove la conoscenza normativa è filtrata attraverso un algoritmo che decide, in autonomia apparente, cosa ha valore e cosa no.
Secondo la Casa Bianca, “nessun piano definitivo è stato approvato”, ma il team di DOGE viene comunque definito “il meglio del meglio nel settore”. Una frase che sembra uscita direttamente da uno speech motivazionale di un CEO della Silicon Valley, più che da un portavoce presidenziale. Non sorprende poi che nelle prime fasi della sua esistenza, DOGE fosse guidato da Elon Musk, che con la burocrazia ha un rapporto simile a quello che un toro ha con una corrida: la considera un invito alla carica.
La questione centrale, qui, è la crescente fiducia cieca in un’intelligenza artificiale performativa come strumento decisionale. Se un tempo i regolamenti federali erano il risultato di consultazioni, dibattiti pubblici, pressioni delle lobby e valutazioni giuridiche, oggi possono essere decisi da un algoritmo addestrato con parametri opachi e una visione del mondo probabilistica. In altri termini, ci stiamo affidando a una scatola nera per dire cosa è ancora “legittimo” nella gestione dello Stato.
Ed è qui che il sarcasmo diventa tragicamente ironico. DOGE, un nome che evoca un meme su un cane giapponese stupito, è diventato il simbolo di una deregulation sistemica gestita da IA. Mentre il sistema giudiziario dibatte su come regolare l’uso dell’AI nelle aule dei tribunali, l’esecutivo pare già pronto a lasciar decidere agli algoritmi quali norme mantenere e quali cestinare. È il ribaltamento della democrazia normativa: il principio non è più “la legge come espressione della volontà popolare”, ma “la legge come output accettabile per un modello predittivo”.
Siamo passati dal “drain the swamp” trumpiano a “purge the code”, con la differenza che stavolta non sono i funzionari corrotti ad andarsene, ma le norme stesse, eliminate da un’intelligenza artificiale che probabilmente è stata addestrata su testi legali, conversazioni di Reddit, e forse anche qualche thread di X/Twitter.
Non è la prima volta che DOGE flirta con il disastro. Uno degli strumenti precedenti, secondo fonti interne, avrebbe “allucinato” le dimensioni dei contratti del Dipartimento per i Veterani, generando numeri gonfiati e completamente inventati. Il che solleva una domanda fondamentale: vogliamo davvero affidare il nostro sistema normativo a un modello che può confondere miliardi con milioni solo perché i dati di training erano male etichettati?
La visione implicita in questa operazione è quella di uno Stato snello, ridotto all’osso, dove la macchina amministrativa non è più zavorra ma scompare completamente. È una distopia neoliberista travestita da efficienza tecnologica. E in un momento storico in cui le grandi AI sono ancora incapaci di distinguere sarcasmo da realtà, la deregulation federale viene trattata come una funzione automatizzabile, a prescindere dagli impatti sociali, economici o ambientali.
La keyword è chiara: deregulation. E le sue sorelle semantiche ballano attorno come avvoltoi: snellimento normativo, intelligenza artificiale decisionale, automazione della governance. È il nuovo pantheon della politica trumpiana 2.0, dove l’AI non è solo uno strumento ma un’ideologia mascherata da efficienza. Il sogno finale è un governo che non governa, una burocrazia che non scrive, una legge che non viene discussa ma generata, come un post di social media, dal motore predittivo più performante.
In un sistema dove tutto è dato in outsourcing all’intelligenza artificiale, il cittadino si ritrova a vivere in uno Stato generato da prompt. Non eletto, non deliberato, ma semplicemente prodotto. Un mondo dove il legislatore è sostituito dal linguista computazionale, e il senso della norma è subordinato alla coerenza statistica. Ecco perché questo progetto non è semplicemente inquietante, ma profondamente rivelatore di dove sta andando la macchina amministrativa americana.
L’efficienza è una virtù, certo. Ma senza trasparenza, controllo democratico e responsabilità, diventa solo l’altra faccia della tirannia. Una tirannia che, stavolta, non ha volto umano ma una UI in stile dark mode e un indicatore di confidence score. E magari anche un assistente vocale che risponde con la voce di Ronald Reagan.