Mentre Washington canta l’inno dell’“American-made AI” con un patriottismo da Silicon Valley che profuma più di marketing che di governance, Pechino decide di giocare un’altra partita. E lo fa con un documento rilasciato sabato scorso: il “Global AI Governance Initiative Action Plan”, che suona più come una proposta di leadership globale mascherata da collaborazione internazionale. Non è un piano, è una sfida a chi detta le regole del nuovo ordine cognitivo globale.

L’obiettivo è chiaro. Approfittare della ritirata strategica americana per piazzare le proprie bandiere nel vuoto geopolitico e tecnologico lasciato scoperto, soprattutto nel cosiddetto Global South. Dall’Africa al Sud-Est asiatico, dove la connettività è in crescita ma le infrastrutture sono ancora fragili, la Cina non offre solo algoritmi ma un intero pacchetto: hardware, software, finanziamenti, know-how e… narrativa. Perché sì, la narrativa conta, anche quando si parla di modelli di linguaggio.

Le keyword sono tutte lì, distribuite come un codice sorgente ideologico: alleanze globali, dataset condivisi, open source transnazionale, infrastrutture AI comuni. Sembra un manifesto della Silicon Valley anni 2000, peccato che dietro ci sia il Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese. Ironico, no? L’open source nella terra della censura.

Sulla carta, l’intenzione è nobile. Ma ogni ingegnere lo sa: il diavolo sta nei dati. E il documento non chiarisce cosa significhi davvero “dataset di alta qualità” in un contesto dove la verità è spesso un costrutto selettivo. Altissima qualità per servire l’interesse pubblico, certo, ma “pubblico” per chi? Per la comunità internazionale o per il Politburo? Se i modelli vengono addestrati su un internet filtrato, le loro “verità” saranno coerenti con l’universo Baidu, non con quello Google.

La vera differenza con Stati Uniti ed Europa è l’approccio verticale. Il regolatore in Cina non è un arbitro, è un ingegnere con potere esecutivo. Nessuna Commissione da consultare, nessun Parlamento da convincere. Serve una legge sull’intelligenza artificiale? Si scrive. Serve bloccare un modello? Si spegne. L’innovazione procede per direttiva, non per consensus. Questo significa velocità. E la velocità, nel deep learning, è potere.

Nel frattempo, l’America corre. Nvidia continua a progettare chip che sembrano uscite da una trilogia di Asimov e Microsoft finanzia modelli sempre più parametrici, sempre più costosi, sempre più… energivori. La Cina invece si concentra su chip a basso consumo, come l’H20 di Nvidia, uno dei pochi ancora accessibili nonostante le sanzioni. Più che una limitazione, è una lezione di adattabilità: costruire efficienza quando non si può comprare potenza. Un principio molto confuciano, in fondo.

Sotto il radar, però, la Cina sta già vincendo alcune partite strategiche. Quattro dei dieci principali modelli open-weight oggi sul mercato provengono da aziende cinesi. Questo non significa solo competenza tecnica, ma anche volontà di competere apertamente su un terreno dove l’Occidente si sentiva intoccabile: la trasparenza del codice. Poi c’è il dominio nei robot umanoidi, un settore spesso sottovalutato ma che diventerà cruciale quando l’AI dovrà uscire dagli schermi per entrare nei corpi. E, ovviamente, le terre rare. Senza litio, cobalto, neodimio e grafite non si costruisce né un LLM né un drone. Chi controlla quei flussi, controlla la pipeline dell’intelligenza.

Il piano d’azione AI della Cina è quindi un esperimento di soft power con ambizioni molto hard. La diplomazia tecnologica è lo strumento, ma l’obiettivo è chiaro: riscrivere le regole. Costruire un ecosistema dove l’innovazione non è necessariamente angloamericana, dove le licenze software sono in mandarino e dove i benchmark vengono definiti a Shenzhen, non a San Francisco.

Ora, non stiamo parlando di egemonia benevola. Siamo di fronte a una ridefinizione geopolitica della competizione cognitiva. Una corsa in cui il modello migliore non è quello più accurato, ma quello più influente. E l’influenza, come sanno bene i public relations officer del Partito, è un gioco di percezione. È per questo che la Cina vuole guidare la costruzione delle “alleanze internazionali per lo sviluppo responsabile dell’AI”. Vuole dettare i codici etici, le best practice, i criteri di auditing. Insomma, vuole fare da architetto della morale digitale globale.

Questo approccio è tanto sofisticato quanto pericolosamente efficace. Perché a differenza degli Stati Uniti, dove ogni impresa fa per sé, la Cina agisce come un unico stack verticale: dalle miniere africane al modello di linguaggio, tutto è orchestrato. Non è capitalismo di stato, è ingegneria geopolitica.

Naturalmente, c’è una componente propagandistica. Non dimentichiamoci che il documento è stato pubblicato appena qualche giorno dopo quello americano. Il timing non è casuale, è un segnale. È come dire: voi fate piani nazionali, noi facciamo proposte globali. Ma dietro la retorica c’è anche la consapevolezza che nessun paese, nemmeno la Cina, può costruire un’intelligenza veramente generale da solo. Serve un ecosistema. E in questo momento, molti paesi del Sud del mondo sono pronti ad ascoltare. Hanno bisogno di infrastrutture, strumenti, modelli preaddestrati. E non si pongono troppe domande sulla governance. Vogliono soluzioni, non dibattiti.

Dunque, la domanda non è se la Cina riuscirà a imporre il proprio modello. Ma se gli altri sapranno costruirne uno alternativo prima che sia troppo tardi. In caso contrario, rischiamo di ritrovarci con una AI open-source, sì, ma ideologicamente precompilata.

Questo è il paradosso del nuovo ordine dell’intelligenza artificiale. Ci viene venduto come un progetto collettivo, inclusivo e aperto. Ma il codice sorgente, spesso, è scritto da chi ha il controllo delle infrastrutture. E chi controlla le infrastrutture, controlla il futuro.