Mark Zuckerberg, l’uomo che ha trasformato Facebook in Meta per inseguire l’utopia del metaverso, ora ci riprova con un’altra mossa al confine tra narcisismo tecnologico e delirio di onnipotenza. La nuova frontiera? Una “superintelligenza personale”, ovvero una versione altamente individualizzata di AGI (Artificial General Intelligence), condita da un post sul blog in pieno stile manifesto visionario, come solo lui sa fare. Ovviamente, accompagnato da un video promozionale con l’ormai iconica postura da CEO che ha appena scoperto il futuro. Spoiler: il futuro, secondo Zuck, è ancora una volta dentro Meta.
La keyword che aleggia sopra tutto è intelligenza artificiale personale. Non un’assistente, non un chatbot, non una LLM a noleggio. Una specie di clone cognitivo, pensato per conoscere ogni aspetto della tua vita e diventare un’estensione della tua identità digitale. Per Zuckerberg, questa è la naturale evoluzione delle AI generative: non più strumenti da interrogare, ma entità con cui co-esistere, allenate sui tuoi dati personali, i tuoi contenuti, la tua storia digitale. In pratica, un gemello digitale pronto a pensare al posto tuo. Da qui il termine “superintelligenza personale”: un AGI cucito addosso come un abito sartoriale, ma prodotto in massa da Meta. L’ambizione? Superare OpenAI, Google DeepMind e tutti gli altri nel costruire qualcosa che non solo pensa come te, ma anticipa i tuoi desideri. L’incubo perfetto per chi ha ancora una vaga nostalgia della privacy.
Dietro la visione, però, c’è anche una realtà molto più concreta: una guerra spietata per il talento. Meta, stando alle indiscrezioni interne, sta offrendo cifre indecenti per strappare i migliori cervelli dell’AI, soprattutto quelli usciti da Anthropic, OpenAI e Google. Non è solo una questione di stipendi. È un’operazione di repositioning ideologico. Zuckerberg vuole attrarre chi crede davvero in una visione alternativa dell’AGI: decentralizzata, distribuita, e – naturalmente – Made in Meta. Per farlo, serve una narrativa forte, una vision che possa controbilanciare il culto semi-religioso che si è creato attorno a Sam Altman e alla sua AI-mania da Silicon Valley spiritualizzata.
Il problema è che mentre Altman si fa fotografare in pose messianiche e annuncia future intelligenze cosmiche che ci supereranno tutti, Zuckerberg gioca un’altra partita. Più intima, più personalistica. E molto, molto più scalabile. Una superintelligenza personale può essere venduta a miliardi di utenti. Una AGI generica, no. Non sorprende quindi che la sua scommessa punti tutto sul lato consumer, con un’architettura AI che mette l’identità digitale dell’utente al centro, alimentata dai dati provenienti da Instagram, Facebook, WhatsApp, e – non dimentichiamolo – i futuri occhiali smart. Se pensavate che l’AI fosse solo una moda passeggera, Zuckerberg è qui per ricordarci che è anche un business da mille miliardi, a patto che tu possa legarla all’identità e alla dipendenza digitale.
Naturalmente, tutto questo si ammanta di una patina etica. La narrazione ufficiale è che la superintelligenza personale sarà “empowering”, ti restituirà tempo, ti aiuterà a vivere meglio. Un classico esempio di neolingua tech: ti conoscerà meglio di te stesso, ti suggerirà decisioni, ti guiderà nelle relazioni, ma tutto nel nome della libertà personale. Perché, si sa, niente è più libero che avere un’intelligenza artificiale Meta che ti dice chi sei.
In parallelo, Zuckerberg cerca di differenziare Meta dai modelli chiusi e centralizzati degli altri big dell’AI. Fa leva sulla promessa (non ancora mantenuta) di open source, sulla trasparenza del modello LLaMA e sulla possibilità di creare AI modulabili, private, distribuite. Una mossa furba, che pesca nella retorica hacker e open di fine anni ’90, ma la rivolta è solo apparente. Dietro l’estetica del decentramento, il controllo resta ferreo. Meta vuole essere la piattaforma, il layer fondante dell’intelligenza personale del futuro. Non un fornitore di strumenti, ma il sistema operativo delle menti digitali.
E mentre l’attenzione mediatica si concentra sulle offerte monstre per gli ingegneri AI e sulle dichiarazioni visionarie, vale la pena guardare tra le righe. Perché ciò che Zuckerberg sta realmente proponendo è un ribaltamento del paradigma: non più tu che usi un’AI, ma l’AI che diventa una parte di te. Non una tecnologia da imparare, ma una mente artificiale che ti impara. Questo è il vero salto qualitativo, e anche il vero rischio. In un mondo in cui l’identità digitale viene ridefinita da algoritmi che ti modellano, chi possiede l’intelligenza personale possiede te. È qui che la battaglia per l’AGI si fa davvero interessante. Non su chi avrà il modello più grande o più efficiente, ma su chi riuscirà a diventare l’interfaccia cognitiva dell’umanità.
Ironico, poi, che proprio Zuckerberg, il campione della standardizzazione algoritmica, ora si erga a profeta dell’individualità digitale potenziata dall’AI. È lo stesso uomo che ha trasformato l’empatia umana in un feed di like e reazioni, ora ci propone un’AI che sa chi sei meglio di tua madre. La narrazione è lucida, ma non priva di cinismo. L’intelligenza artificiale personale non è una missione altruista. È la nuova pelle del capitalismo cognitivo. Dove ogni pensiero è tracciato, ogni emozione prevista, ogni decisione pre-elaborata da un modello addestrato su di te. Altro che AGI: questo è il ritorno del panopticon digitale, solo con un’interfaccia più amichevole.
Nel frattempo, la community tech si divide. C’è chi applaude alla visione e chi, più sobriamente, osserva che nessuno ha ancora dimostrato che un’AGI personale sia tecnicamente possibile, né economicamente sostenibile su scala globale. Ma a Zuckerberg questo non interessa. Come nel caso del metaverso, il punto non è costruire qualcosa di immediatamente funzionale. È colonizzare l’immaginario. Piantare la bandiera prima degli altri, creare uno standard che costringa tutti a seguirlo. Se poi funziona, tanto meglio. Se fallisce, resteranno i dati, le infrastrutture, l’hardware, e quel capitale narrativo che può sempre essere riconvertito in un’altra visione.
Quello che Zuckerberg propone, in fondo, non è diverso dal sogno alchemico dell’IA generativa in salsa Silicon Valley: un’illusione di controllo, mascherata da evoluzione. Una nuova forma di dipendenza, presentata come potenziamento. Ma anche un’enorme opportunità di business per chi riuscirà a dominarla. E Meta, in questo gioco, non vuole più rincorrere. Vuole dettare le regole. Di nuovo.