Chi pensava che il boom dei chip per l’intelligenza artificiale si sarebbe raffreddato nel 2025, dovrà rivedere le proprie ipotesi. Groq, la startup fondata dall’ex ingegnere Google Jonathan Ross, è in trattative per raccogliere altri 600 milioni di dollari a una valutazione stratosferica di quasi 6 miliardi. Sì, esatto: il doppio rispetto ad appena un anno fa, quando aveva chiuso un round da 640 milioni a 2,8 miliardi. La matematica della bolla? O semplicemente la nuova geografia del potere computazionale.

Groq non è l’ennesima startup a caccia di hype. È una delle poche a essersi specializzata in un’architettura alternativa per AI inference, diventando in tempi record una delle darling emergenti della Silicon Valley per l’infrastruttura AI low-latency. Dopo la partnership con Meta per accelerare Llama 4 e quella con Bell Canada per alimentare le dorsali AI del colosso telco, Groq si è trasformata in una creatura da tenere d’occhio. E a quanto pare, anche da finanziare pesantemente. Secondo Bloomberg, il nuovo round sarebbe guidato da Disruptive, fondo texano noto per la sua aggressività. Il precedente, invece, era stato guidato da BlackRock, con nomi solidi come Cisco, KDDI e Samsung Catalyst Fund nel cap table.

Nel gioco geopolitico dell’AI, dove Nvidia è diventata sinonimo di dominio e le GPU sono la valuta forte, Groq sta scommettendo su un’alternativa. Non vende solo chip, ma un modello completo di computing AI, ottimizzato per l’inference e pronto per scalare. E in un mercato dove ogni millisecondo conta e ogni watt pesa, questa proposizione diventa strategica. Certo, i margini restano tutti da dimostrare. Ma il messaggio che arriva dalla raccolta è chiaro: chi controlla l’inference controlla l’AI economy.

Né Groq né Disruptive hanno commentato ufficialmente. Ma quando il silenzio pesa più delle parole, significa che i giochi sono grossi.

groq raddoppia la valutazione a 6 miliardi: la fame di chip AI non si ferma

Chi pensava che il boom dei chip per l’intelligenza artificiale si sarebbe raffreddato nel 2025, dovrà rivedere le proprie ipotesi. Groq, la startup fondata dall’ex ingegnere Google Jonathan Ross, è in trattative per raccogliere altri 600 milioni di dollari a una valutazione stratosferica di quasi 6 miliardi. Sì, esatto: il doppio rispetto ad appena un anno fa, quando aveva chiuso un round da 640 milioni a 2,8 miliardi. La matematica della bolla? O semplicemente la nuova geografia del potere computazionale.

Groq non è l’ennesima startup a caccia di hype. È una delle poche a essersi specializzata in un’architettura alternativa per AI inference, diventando in tempi record una delle darling emergenti della Silicon Valley per l’infrastruttura AI low-latency. Dopo la partnership con Meta per accelerare Llama 4 e quella con Bell Canada per alimentare le dorsali AI del colosso telco, Groq si è trasformata in una creatura da tenere d’occhio. E a quanto pare, anche da finanziare pesantemente. Secondo Bloomberg, il nuovo round sarebbe guidato da Disruptive, fondo texano noto per la sua aggressività. Il precedente, invece, era stato guidato da BlackRock, con nomi solidi come Cisco, KDDI e Samsung Catalyst Fund nel cap table.

Nel gioco geopolitico dell’AI, dove Nvidia è diventata sinonimo di dominio e le GPU sono la valuta forte, Groq sta scommettendo su un’alternativa. Non vende solo chip, ma un modello completo di computing AI, ottimizzato per l’inference e pronto per scalare. E in un mercato dove ogni millisecondo conta e ogni watt pesa, questa proposizione diventa strategica. Certo, i margini restano tutti da dimostrare. Ma il messaggio che arriva dalla raccolta è chiaro: chi controlla l’inference controlla l’AI economy.

Né Groq né Disruptive hanno commentato ufficialmente. Ma quando il silenzio pesa più delle parole, significa che i giochi sono grossi.

Chi ha paura della verità? Sicuramente non Daniel Ek, il fondatore-filosofo di Spotify, che ha appena deciso di dare in pasto Lee Brown, suo ex chief revenue officer, alla macchina tritatutto del capitalismo mediatico. Brown, veterano della pubblicità digitale con un pedigree da Spotify fino a DoorDash, è stato licenziato in diretta mondiale con un elegante colpo basso: “un problema di esecuzione, non di strategia”. Tradotto dal corporate-svedese: ci piace la teoria, ma tu sei l’idiota che non l’ha fatta funzionare.

Il tempismo è chirurgico, quasi teatrale. Proprio mentre Spotify annuncia i risultati trimestrali con una flessione del 12% in borsa dovuta a un dollaro debole e spese lievitate, i vertici trovano conveniente puntare il dito verso l’advertising. Come se i margini di errore fossero nati ieri, come se la pubblicità su Spotify fosse un problema recente. La realtà? Spotify spinge da anni per convertire gli utenti gratuiti in abbonati a pagamento, cannibalizzando volutamente la propria stessa base pubblicitaria. Se i numeri dell’advertising crescono solo del 5% a fronte di un incremento del 10% degli utenti free, non è per colpa di Brown. È colpa di una strategia schizofrenica che sputa nel piatto della monetizzazione pur di vendere il sogno dell’abbonamento ricorrente.

È la perfetta rappresentazione di un capitalismo digitale che premia la narrativa sopra l’esecuzione. Ek, con tono professorale, ci spiega che la visione era giusta ma l’execution carente. Una classica scappatoia da CEO del ventunesimo secolo, dove la colpa non è mai della strategia, solo del sottoposto che non l’ha capita. Curioso, però, che Lee Brown sia rimasto in sella per cinque anni. Se era davvero il collo di bottiglia dell’advertising, perché aspettare il 2024 per tagliarlo? La risposta è semplice: capri espiatori si usano quando serve salvare la faccia, non quando si cerca efficienza.

La verità è che Spotify vive una crisi identitaria che nessun comunicato può mascherare. Da anni promette un’espansione nel business pubblicitario, flirtando con il sogno di diventare la nuova YouTube dell’audio. Peccato che i fatti raccontino una storia diversa: investimenti limitati, tecnologia pubblicitaria ancora acerba, e una struttura commerciale incapace di scalare in un mondo dominato da Google e Meta. È difficile vendere pubblicità quando il tuo intero modello di crescita è costruito per far sparire gli utenti free, gli unici che vedono gli annunci.

Il paradosso è grottesco. Spotify cerca disperatamente di monetizzare la sua audience, ma la piattaforma è progettata per farla fuggire verso l’abbonamento. Un modello suicida, che promette volumi ma uccide i margini. In questo contesto, Lee Brown era più una vittima che un carnefice. L’esecuzione era probabilmente imperfetta, certo, ma solo perché il piano era una fantasia da boardroom, non una strategia da campo di battaglia.

La reazione brutale di Ek e Norstrom non è isolata. Già a fine 2023, l’addio del CFO Paul Vogel fu accompagnato da una dichiarazione secca: “Ci serve un CFO con un diverso mix di esperienze”. Un altro modo elegante per dire: fuori il vecchio, dentro uno più allineato al nuovo storytelling. Questo non è management, è branding delle risorse umane. È il tentativo di controllare la narrazione a qualunque costo, perfino denigrando chi ha servito l’azienda per anni.

Nel frattempo, il mercato pubblicitario continua a ignorare le illusioni di Spotify. Gli analisti vedono i numeri, non le slide patinate. La crescita è lenta, strutturalmente limitata, e piena di incoerenze. Perché mai un inserzionista dovrebbe investire in una piattaforma dove gli utenti gratuiti sono una specie in via d’estinzione? Il valore dell’inventory pubblicitaria di Spotify è un’illusione contabile, non un asset strategico.

E mentre Spotify litiga con la propria ombra, nel resto del mondo la musica del capitalismo tech cambia ritmo. Il Wall Street Journal ha rivelato che Palo Alto Networks potrebbe acquisire CyberArk per oltre 20 miliardi di dollari, seguendo il ritmo accelerato delle mega-operazioni M&A che stanno riscrivendo le regole del gioco. Google compra Wiz per 32 miliardi, Meta si prende metà di Scale AI per oltre 14, Salesforce ne spende 8 su Informatica. L’era del deal-free voluta da Lina Khan e dagli zeloti dell’antitrust sembra già una reliquia del passato. Il nuovo corso è più pragmatico, più connesso. Non si tratta più di ideologia, ma di lobbying e accesso alle leve del potere.

La recente rimozione di due alti funzionari dell’antitrust USA dopo settimane di scontri sul deal tra Hewlett Packard Enterprise e Juniper Networks è un segnale chiaro: l’amministrazione Trump non vuole sentire storie su mercati aperti e concorrenza. Come ha scritto il CEO di Epic Games, Tim Sweeney, “non si può più dare per scontato che gli Stati Uniti faranno rispettare le leggi antitrust contro le aziende americane”. E chi può biasimare Big Tech se inizia a fare festa.

Nel frattempo, Anthropic vola verso una valutazione da 170 miliardi di dollari, spinta da Iconiq Capital, mentre Cerebras Systems cerca fino a un miliardo in finanziamenti privati per sfidare Nvidia sul fronte dei chip AI. JPMorgan si prepara a prendere il posto di Goldman Sachs come partner per l’Apple Card. La musica cambia, le note sono sempre più alte, ma Spotify continua a suonare stonata.

La sua incapacità di monetizzare un pubblico globale con la pubblicità digitale non è solo un fallimento operativo. È la dimostrazione che il modello Spotify, se non evoluto radicalmente, ha dei limiti strutturali insormontabili. E no, cambiare CRO non basta. Perché il vero problema non è chi esegue. È chi immagina.

Chi pensava che il boom dei chip per l’intelligenza artificiale si sarebbe raffreddato nel 2025, dovrà rivedere le proprie ipotesi. Groq, la startup fondata dall’ex ingegnere Google Jonathan Ross, è in trattative per raccogliere altri 600 milioni di dollari a una valutazione stratosferica di quasi 6 miliardi. Sì, esatto: il doppio rispetto ad appena un anno fa, quando aveva chiuso un round da 640 milioni a 2,8 miliardi. La matematica della bolla? O semplicemente la nuova geografia del potere computazionale.

Groq non è l’ennesima startup a caccia di hype. È una delle poche a essersi specializzata in un’architettura alternativa per AI inference, diventando in tempi record una delle darling emergenti della Silicon Valley per l’infrastruttura AI low-latency. Dopo la partnership con Meta per accelerare Llama 4 e quella con Bell Canada per alimentare le dorsali AI del colosso telco, Groq si è trasformata in una creatura da tenere d’occhio. E a quanto pare, anche da finanziare pesantemente. Secondo Bloomberg, il nuovo round sarebbe guidato da Disruptive, fondo texano noto per la sua aggressività. Il precedente, invece, era stato guidato da BlackRock, con nomi solidi come Cisco, KDDI e Samsung Catalyst Fund nel cap table.

Nel gioco geopolitico dell’AI, dove Nvidia è diventata sinonimo di dominio e le GPU sono la valuta forte, Groq sta scommettendo su un’alternativa. Non vende solo chip, ma un modello completo di computing AI, ottimizzato per l’inference e pronto per scalare. E in un mercato dove ogni millisecondo conta e ogni watt pesa, questa proposizione diventa strategica. Certo, i margini restano tutti da dimostrare. Ma il messaggio che arriva dalla raccolta è chiaro: chi controlla l’inference controlla l’AI economy.

Né Groq né Disruptive hanno commentato ufficialmente. Ma quando il silenzio pesa più delle parole, significa che i giochi sono grossi.

Nel capitalismo algoritmico, dove ogni click è un voto e ogni scroll una forma di lealtà, non c’è spazio per le mezze verità. Le piattaforme vivono o muoiono sulla base della loro capacità di convertire attenzione in valore. E Spotify, per ora, resta bloccata nel limbo tra la promessa di un ecosistema pubblicitario e la realtà di una dipendenza patologica dall’abbonamento. Gli investitori possono anche accettare i numeri ballerini. Ma il mercato, prima o poi, presenterà il conto. Con o senza Lee Brown.