Durante la call sui risultati del secondo trimestre, Meta ha recitato il suo ennesimo atto nel grande teatro dell’innovazione. Palco virtuale, attori ben allenati, tono rassicurante, qualche accenno di visione strategica e un nome ripetuto fino allo sfinimento: intelligenza artificiale. Ma dietro le slide patinate e i numeri ben impaginati, si nasconde una realtà più interessante: Meta non ha ancora una strategia chiara su come monetizzare davvero l’intelligenza artificiale. Per ora, si accontenta di usarla come turbo per un motore pubblicitario che ha già percorso qualche miliardo di chilometri.
Susan Li, CFO di Meta, l’ha detto in modo fin troppo candido: i benefici più concreti dell’AI, al momento, si vedono nel ranking dei contenuti, cioè nel modo in cui Facebook e Instagram decidono cosa mostrare agli utenti. Detto più brutalmente, Meta usa l’intelligenza artificiale per decidere chi deve vedere cosa e quando, in un loop personalizzato che ha più a che fare con la manipolazione dell’attenzione che con il progresso tecnologico. I risultati però parlano. Secondo Li, nel secondo trimestre 2025 il tempo passato a guardare video su Instagram è cresciuto di oltre il 20% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Questo, ovviamente, è un regalo per gli inserzionisti. Perché più tempo sullo schermo significa più spot, più dati, più soldi.
Il trucco non è nei contenuti, ma nella loro presentazione. Meta ha cominciato ad adattare i suggerimenti in tempo reale, in base a ciò con cui gli utenti interagiscono in quel momento specifico. Non più una timeline personalizzata in senso statico, ma un flusso adattivo, dove il contenuto consigliato viene aggiornato secondo lo stato comportamentale corrente dell’utente. Una specie di mood radar. L’obiettivo, secondo le parole della stessa Li, è rendere i suggerimenti “più pertinenti a ciò a cui sono interessati in quel momento”. Non in generale. In quel momento. Il feed si fa liquido, istantaneo, narcisista.
È qui che entra in scena l’altro mantra della nuova religione algoritmica di Meta: contenuti originali. O almeno, così dicono. Perché nella stessa teleconferenza, Li ha annunciato che oltre due terzi dei contenuti raccomandati su Instagram negli Stati Uniti sono oggi post originali. Un dato che, letto senza contesto, sembra una rivoluzione culturale. Ma che significa “originale” quando l’intero ecosistema è costruito per premiare ciò che somiglia a ciò che già funziona? Non stiamo parlando di originalità artistica o narrativa, ma solo di contenuti che non sono stati riciclati da TikTok. In pratica, Meta si vanta di aver ridotto il tasso di plagio algoritmico. Complimenti.
La vera novità, invece, è quella che riguarda la freschezza dei contenuti. Perché nel secondo semestre del 2025, come ha dichiarato la stessa Li, Meta si concentrerà sull’“ulteriore miglioramento della freschezza dei post originali, in modo che il pubblico giusto possa scoprire i contenuti originali dei creatori subito dopo la loro pubblicazione”. L’intenzione è chiara: rendere più veloce il ciclo visibilità-engagement. In altre parole, accorciare il tempo tra la pubblicazione di un post e il suo picco di attenzione. Un algoritmo ansioso che vuole dare tutto subito, e poi dimenticare tutto dopo due scroll.
Non finisce qui. Sempre secondo Li, Meta “sta apportando ottimizzazioni per aiutare i migliori contenuti dei creatori più piccoli a emergere”. Che in Meta si siano svegliati filantropi dell’attenzione? Difficile da credere. Più verosimile è che abbiano capito come i creator minori, se messi in circolo correttamente, generino un engagement più genuino e meno costoso rispetto ai big. Sono contenuti che performano meglio in termini di ROI pubblicitario e permettono a Meta di diversificare l’offerta, evitando l’effetto bolla da creator superstar.
Instagram Reels, da questo punto di vista, è un caso da manuale. Nato come clone posticcio di TikTok, oggi è un concorrente autentico, grazie a un algoritmo di raccomandazione che non ha nulla da invidiare alla concorrenza cinese. Ma è anche un prodotto che vive di ambiguità. Da un lato, si propone come palcoscenico per l’espressione creativa, dall’altro si nutre di format preconfezionati, trend da ballare, challenge usa-e-getta. E l’intelligenza artificiale Meta non fa altro che accentuare questo paradosso: ottimizza la performance, non il contenuto. Premia il ritmo, non l’originalità vera.
In questa corsa alla manipolazione dell’attenzione, la trasparenza è un optional. Nessuno sa esattamente come l’AI di Meta decida cosa spingere e cosa silenziare. L’algoritmo non è neutro. È costruito per massimizzare la permanenza e quindi il profitto. Chi crea contenuti è incentivato a decifrare i segnali deboli del sistema, non a costruire narrazioni complesse. La premialità è algoritmica, non meritocratica. Si vince se si è compatibili con i gusti effimeri del motore, non se si ha qualcosa di rilevante da dire.
Nel frattempo, i vertici di Meta continuano a vendere l’idea che tutto questo sia un progresso. Ma dietro l’entusiasmo da quarterly report, si intravede la realtà di un colosso che ha smesso di innovare per cominciare a perfezionare. Il vero breakthrough tecnologico non sta arrivando. Sta solo affinando il controllo.
Meta sta diventando la Nestlé dell’informazione digitale: raffinata, onnipresente, iper-efficiente, ma priva di anima. Eppure, funziona. Perché nell’economia dell’attenzione, vince chi riesce a rendere l’esperienza abbastanza interessante da sembrare scelta, pur essendo completamente guidata.
Quando l’intelligenza artificiale Meta sarà finalmente in grado di monetizzare oltre il feed, forse scopriremo se c’è davvero un piano o solo un algoritmo che ci ha preso gusto a decidere per noi. Nel frattempo, scrolliamo. Perché l’AI ha già scelto cosa dobbiamo vedere dopo.