Dodici miliardi di dollari. Annualizzati, sia chiaro. Bastano sette mesi e OpenAI che ancora viene definita “startup” da chi ignora cosa significhi crescere più in fretta della regolamentazione raddoppia il suo fatturato e si posiziona in orbita. Non è solo un numero da riportare nei bilanci, ma un’asserzione di potere industriale. Tradotto in linguaggio terra-terra: il creatore di ChatGPT macina un miliardo di dollari al mese. Ogni giorno che passa, la Silicon Valley diventa un po’ più simile alla Federal Reserve.
Questa non è più l’intelligenza artificiale come ce la raccontavano nei podcast del 2023. Questa è l’ingegneria di una nuova egemonia cognitiva. E non è un caso che Microsoft, il cavaliere bianco col bilancino da investment banker, sia lì a raccogliere dividendi reputazionali con un sorrisetto da chi ha letto il finale prima degli altri. Ma andiamo per gradi o almeno fingiamo di farlo.
Settecento milioni di utenti attivi settimanali per ChatGPT. Numeri che nessun prodotto enterprise nella storia del software aveva mai raggiunto con questa velocità. Si parla di un’adozione che ha già superato i cicli storici di Salesforce, AWS e perfino Android. E attenzione: non si tratta di utenti passivi o “bot engagement”, ma di persone, aziende, manager, studenti, CFO e copywriter iper-ottimizzati che hanno inserito ChatGPT nella filiera produttiva quotidiana. La AI, oggi, è una utility. Come l’elettricità, ma con meno regolazione e più margine operativo lordo.
La conseguenza? Un consumo vorace di capitale. Perché per mantenere la macchina accesa, addestrata e più reattiva del concorrente di turno (vedi Manus, che promette una “major upgrade” al suo core agent come se stessimo parlando del rilascio di un nuovo sistema nervoso digitale), OpenAI ha già rivisto al rialzo la sua previsione di cash burn. Otto miliardi di dollari nel 2025. Un miliardo in più rispetto alla precedente stima. E no, non si tratta di un errore di budgeting, ma di una precisa scelta strategica: correre più veloce del tempo.
Chi pensa che questa sia una bolla, evidentemente ignora la matematica del potere. Perché nel mondo dei modelli generativi, la legge di Metcalfe incontra quella di Moore e partorisce mostri meravigliosi. Ogni ciclo di addestramento rende il sistema più utile. Ogni utente in più aumenta l’efficienza marginale dell’intero ecosistema. E così l’equilibrio si sposta: da una concorrenza orizzontale a una dominanza verticale. Da un mercato “aperto” a una tecnocrazia gestita da pochi cluster neurali.
Per sostenere questa velocità da startup-iper-atomica, OpenAI prepara il colpo da maestro. Un aumento di capitale da 30 miliardi di dollari, di cui 7.5 sarebbero già quasi chiusi. Gli investitori non stanno più cercando “ritorni”, ma accesso. L’accesso a ciò che verrà dopo. Sequoia Capital e Tiger Global Management, due nomi che non lanciano dadi, stanno mettendo sul piatto centinaia di milioni. SoftBank, in un’impennata da drago d’Oriente in cerca di redenzione, ha già portato il conto a 32 miliardi in totale dal 2024. Qualcuno dovrebbe chiedere a Masayoshi Son se ha intenzione di diventare il custode dell’intelligenza globale. O se lo è già.
Qui non si parla più solo di AI. Si parla di geopolitica computazionale. Di architettura della conoscenza. Di delega decisionale su scala planetaria. E se tutto questo vi sembra troppo filosofico, tornate ai numeri: dodici miliardi di fatturato e un bilancio che brucia miliardi con la stessa serenità con cui un hedge fund brucia posizioni in overnight trading.
Il punto non è quanto guadagna OpenAI. Il punto è chi può permettersi di stare nella stessa partita. La risposta, ad oggi, è solo una: chi controlla le GPU, i dati e la narrativa. E in questo schema, Microsoft è più regina che sponsor. Un matrimonio di interessi che sta ridefinendo il concetto stesso di “piattaforma”.
Nel frattempo, gli altri inseguono. Alphabet è bloccata in una battaglia intestina tra ingegneria e comunicazione. Meta è tornata a parlare di LLaMA con un entusiasmo da seminario accademico. Amazon guarda al cloud come unico punto d’appoggio mentre il terreno sotto cambia morfologia. Tutti stanno correndo, ma uno solo detta il ritmo. Ed è quello che brucia 8 miliardi all’anno senza battere ciglio.
Chi si chiede se sia sostenibile, probabilmente non ha capito che l’economia della AI è già post-sostenibile. La logica è quella di una scommessa a leva infinita: più utenti, più modelli, più dati, più entrate, più burn rate, più investimenti, più potere. L’unico rischio è la stagnazione. Ma OpenAI, oggi, è l’antitesi della stagnazione. È la Tesla del linguaggio. La SpaceX della sintesi semantica. Il BlackRock del pensiero probabilistico.
E se tutto questo vi sembra esagerato, ricordate che siamo solo a luglio 2025. Mancano ancora cinque mesi e il mondo si sta già comportando come se GPT-5 fosse una versione beta della prossima civiltà.