Tim Cook è salito sul palco dell’auditorium di Cupertino con l’aria di chi sta annunciando la scoperta del fuoco, ma con vent’anni di ritardo. La frase pronunciata davanti ai dipendenti suona come una dichiarazione di guerra più che una strategia tecnologica: “Apple deve farlo. Apple lo farà. È una cosa che dobbiamo afferrare”. Cosa? L’intelligenza artificiale, ovviamente. Quella stessa AI che altri hanno già afferrato, modellato, commercializzato, ridimensionato e persino banalizzato. Eppure, ora, sembra che anche Apple si sia finalmente svegliata dal suo sonno algoritmico.

Il problema è che quando Cook dice che l’AI è “grande quanto, o più grande di internet, smartphone, cloud computing e app”, non sta davvero dicendo nulla di nuovo. Sta solo ammettendo pubblicamente che Apple è indietro. Ancora una volta. Come sempre, se vogliamo essere onesti. È la solita narrazione della “seconda ondata” che Apple si racconta da anni: mai prima, ma sempre meglio. Peccato che questa volta il ritardo sia più imbarazzante che strategico.

Apple è in ritardo sull’intelligenza artificiale generativa. Lo sa, lo ammette, e cerca di rivestire la cosa con il solito manto del perfezionismo. Federighi, lo stesso che ha orchestrato l’interfaccia utente di iOS come se fosse una mostra di arte zen, ha parlato apertamente del fallimento del primo tentativo di potenziare Siri con un’architettura ibrida. La dichiarazione è tagliente: “Ci siamo resi conto che quell’approccio non ci avrebbe portati alla qualità Apple”. Una frase che, tradotta dal marketingese, significa: “Abbiamo provato a inseguire OpenAI e Google, ma abbiamo sbattuto contro un muro”.

Per chi mastica intelligenza artificiale, la questione è fin troppo chiara. L’architettura ibrida citata probabilmente prevedeva un layer LLM accoppiato all’attuale stack Siri, una tecnologia talmente vetusta che sembra uscita da un episodio del 2011 di Black Mirror. Una fusione impossibile, insostenibile, soprattutto se l’obiettivo è garantire il tanto decantato “Apple quality”, ovvero quell’esperienza utente sterilizzata, controllata, senza errori o ambiguità. Un lusso che l’AI generativa non può (ancora) permettersi.

Siri, in particolare, rappresenta il punto debole più clamoroso. Mentre Google spinge Gemini e Assistant verso un’integrazione massiva e Microsoft infila Copilot ovunque, Siri è rimasta la voce monotona e limitata di un tempo. Non capisce le sfumature, non genera testo in modo coerente, non è in grado di contestualizzare domande complesse. È l’equivalente digitale di un maggiordomo con l’Alzheimer, gentile ma confuso.

Il fatto che Apple stia ora ristrutturando completamente la sua architettura AI fa pensare a una rivoluzione interna silenziosa, quasi disperata. Il problema, però, non è solo tecnico. È culturale. Apple ha costruito la propria reputazione sull’idea che l’utente non deve mai vedere l’ingranaggio. L’AI generativa, invece, è imprevedibile, affascinante e grezza. È un artista ubriaco, non un impiegato perfetto. Come si sposa tutto questo con l’estetica maniacale e controllatissima di Cupertino?

Il timore più grande è che Apple provi a costruire un’AI che non sembri un’AI. Qualcosa che, per non spaventare gli utenti, venga incapsulata, limitata, domata fino al punto da risultare inutile. Sarebbe l’ennesima occasione mancata. O peggio, un’intelligenza artificiale castrata, cucita addosso a un ecosistema che non accetta il rischio, la dissonanza, l’errore creativo.

A complicare le cose, c’è la fuga di cervelli. Meta, in un’operazione che ricorda l’assalto ai centri di ricerca della guerra fredda, sta assorbendo i talenti AI di Apple con la sua divisione “superintelligence”. Il nome è già tutto un programma: non cercano solo ingegneri, ma demiurghi del codice. Quelli che vogliono spingere oltre i limiti, non creare esperienze utente rassicuranti. Cupertino, invece, continua a trattenere i suoi tecnici con azioni vincolate e appelli motivazionali da palco.

Nel frattempo, le dichiarazioni di Cook su possibili acquisizioni per accelerare la roadmap suonano più come un grido d’aiuto che un piano strategico. Apple è seduta su una montagna di liquidità, eppure la sua penetrazione nel settore AI è sorprendentemente timida. L’unica acquisizione veramente rilevante degli ultimi anni in ambito LLM è stata Xnor.ai nel 2020, ma non ha portato a nulla di visibile. Mentre OpenAI, Anthropic e Mistral si contendono il primato dei modelli, Apple sembra ancora intenta a riflettere su come chiamare la sua AI. Spoiler: non è una questione di naming, Tim.

Se guardiamo alla Search Generative Experience (SGE) e all’evoluzione dei motori semantici, Apple rischia di trovarsi nella posizione paradossale di essere l’unico colosso tech senza un posizionamento chiaro nell’arena dei modelli linguistici. Amazon ha Alexa e Bedrock. Microsoft ha Copilot e Azure OpenAI. Google ha Gemini. E Apple? Ha una presentazione ispirazionale in auditorium.

In una Silicon Valley dove ogni mese rappresenta un’era geologica, Apple sta giocando col fuoco. Se l’AI generativa rappresenta davvero il salto paradigmatico che tutti descrivono, allora è già tardi. Non sarà sufficiente arrivare “dopo ma meglio”, perché la posta in gioco non è solo la qualità dell’esperienza, ma il controllo dello standard cognitivo dell’interazione uomo-macchina. Chi possiede il modello, possiede il linguaggio. E chi possiede il linguaggio, possiede il pensiero.

Cook, con la sua calma da amministratore zen e il suo lessico da keynote, può anche convincere gli azionisti che Apple è ancora in controllo. Ma sotto la superficie, l’azienda è nel bel mezzo di una rincorsa forsennata, costretta a inventare una nuova narrativa per un’AI che non ha contribuito a far nascere. È un cambio di fase, e Apple non ha ancora deciso se vuole essere scienziato o spettatore.

Sarebbe il momento ideale per sorprendere, per rovesciare il tavolo, per annunciare qualcosa di radicale. Una vera Apple AI, non un plug-in per Siri o un abbellimento di iOS. Un nuovo modo di pensare l’interazione, non solo una risposta elegante alle domande banali. Ma per farlo serve coraggio, visione e soprattutto una leadership tecnica capace di sporcarsi le mani.

Finché l’AI rimane una dichiarazione d’intenti e non una linea di codice, Cupertino sarà solo un’eco ritardata nella rivoluzione generativa. Un gigante elegante ma muto, che parla di futuro con lo sguardo rivolto allo specchio.