Quando Google dice che tutto va bene, è il momento di preoccuparsi. Con il tono rassicurante di chi osserva il mondo da una torre di vetro rivestita di dati proprietari, Liz Reid, la nuova regina del motore di ricerca globale, ci informa che il traffico web “è rimasto relativamente stabile”. Traduzione: il mondo digitale sta tremando, ma per ora Google non intende assumersene la colpa.
La dichiarazione arriva dopo settimane in cui i rapporti di realtà ben più terrene — Pew Research, The Wall Street Journal, media digitali in crisi — raccontano una storia diversa: quella di un ecosistema editoriale in progressivo collasso, minato non solo da ChatGPT e Copilot, ma da una mutazione genetica del search stesso. L’introduzione di AI Overview e AI Mode rappresenta un cambio di paradigma che sta già riscrivendo la grammatica dell’attenzione digitale.
Secondo Google, “alcuni siti ricevono più clic, altri meno”, ma l’equilibrio complessivo si mantiene. Un’affermazione che ricorda quella vecchia battuta sugli economisti: se metti la testa nel freezer e i piedi nel forno, in media stai bene. La verità è che la search experience è ormai un terreno di scontro ideologico e commerciale, in cui le intelligenze artificiali non sono solo strumenti, ma arbitri invisibili.
La keyword centrale qui è “AI Overview”, con le correlate “declino traffico web” e “editoria digitale”. Chi padroneggia queste parole oggi, dominerà il futuro del contenuto online. Il problema è che mentre Google finge neutralità, agisce da curatore algoritmico del sapere. E la selezione è tutto tranne che neutrale.
Non è un caso che i siti che beneficiano maggiormente del nuovo search siano quelli che offrono contenuti “autentici”, forum, podcast, video. Una formula che premia il caos controllato, la voce individuale, il contenuto che non è scritto per scalare le SERP ma per creare engagement organico. L’ironia è che proprio Google, per anni, ha spinto il mondo verso l’ottimizzazione SEO industriale, ora celebra la spontaneità come fosse un ritorno all’età dell’oro del web.
Nel frattempo, Business Insider e The Washington Post tagliano redazioni, mentre le testate indipendenti faticano a comparire in prima pagina. Non perché scrivano male, ma perché non aderiscono al nuovo modello di valore: essere linkabili da un’intelligenza artificiale che decide chi è rilevante e chi no.
A rendere il tutto ancora più surreale è il concetto che un clic “più raro” sia “più prezioso”. Liz Reid sostiene che chi clicca da un AI Overview è un utente più motivato, più coinvolto, più propenso a rimanere sul sito. È la nuova mistica del traffico qualificato. Ma è anche un modo elegante per mascherare una verità scomoda: meno clic ci sono, meno entrate pubblicitarie, meno sostenibilità per chi vive di contenuti.
Ciò che stiamo vedendo non è una crisi passeggera, è una disintermediazione algoritmica che sta ridefinendo la logica stessa della scoperta digitale. Google non sta semplicemente rispondendo meglio alle domande degli utenti. Sta rispondendo al posto dei siti. E nel farlo, li sta rendendo ridondanti, o quantomeno comprimari in uno spettacolo in cui l’AI recita, sintetizza, riassume — e talvolta sbaglia — con una sicurezza disarmante.
Ma ciò che rende questo scenario particolarmente pericoloso non è l’imprecisione. È l’autorità percepita. Quando un AI Overview risponde a una query, agli occhi dell’utente medio non è una “fonte”, è la verità. I link sottostanti diventano decorazioni, magari cliccabili, ma sempre meno indispensabili.
Google sostiene che “continua a inviare miliardi di clic ogni giorno”, come se la quantità potesse compensare il cambiamento strutturale della qualità di quei clic. Ma è un argomento fragile. È come dire che una rete televisiva ha ancora milioni di spettatori, ignorando che la metà guarda col cellulare in mano e l’altra metà si addormenta davanti allo schermo.
I creatori di contenuti, una volta partner strategici, stanno diventando fornitori inconsapevoli di training data per un motore che mastica e risputa valore in forma sintetica. Il patto implicito tra Google e il web — io ti indicizzo, tu mi dai contenuti — è saltato. È stato sostituito da un modello in cui l’AI è la prima fermata e i siti, se fortunati, la seconda.
Mentre Google sperimenta “Web Guide”, un sistema di search ancora più curato dall’intelligenza artificiale, la posta in gioco si alza. Chi deciderà cosa è degno di essere mostrato? Chi controllerà il modo in cui le informazioni vengono contestualizzate? L’illusione dell’AI come filtro neutro sta già crollando sotto il peso delle preferenze commerciali, dei bias incorporati e di una logica di centralizzazione informativa che somiglia sempre più a una nuova forma di monopolio cognitivo.
Chi possiede il search possiede la mappa. Ma chi controlla l’AI Overview controlla la narrazione della mappa. In questo scenario, parlare di “traffico stabile” è come discutere del livello dell’acqua mentre la barca cambia direzione. La vera trasformazione è invisibile, è semantica, è psicologica.
Ecco perché i dati interni di Google non bastano. Perché chi sta perdendo non ha accesso a quelle dashboard dorate. Lo capisce dalle metriche che si sgretolano, dalle entrate pubblicitarie che evaporano, dai lettori che non arrivano più.
Ma il paradosso finale è che Google ha ragione su un punto. L’AI Overview non sta uccidendo il web. Sta solo cambiando le regole del gioco. E come ogni rivoluzione silenziosa, non si nota finché non è troppo tardi.
Alla fine, la domanda non è se Google stia distruggendo il traffico web. È se stia ricostruendolo a sua immagine e somiglianza. E in un’epoca in cui il contenuto è carburante per modelli linguistici, la vera battaglia non è per i clic. È per la sovranità cognitiva. Chi decide cosa vale la pena leggere? Chi decide cosa appare? La risposta, per ora, non è più “l’utente”. E neppure “l’editore”. È un algoritmo che ti guarda dall’alto e sorride.
Fonte Blog:https://blog.google/products/search/ai-search-driving-more-queries-higher-quality-clicks/