L’ultima brillante trovata del laboratorio dei sogni chiamato Google si chiama “Storybook”. Una funzionalità integrata nel chatbot Gemini che, almeno in teoria, promette di trasformare un’idea qualsiasi in una fiaba illustrata in dieci pagine. Sembra la trama di un TED Talk su come l’intelligenza artificiale salverà la creatività umana dall’oblio. Peccato che la realtà, come spesso accade, abbia un senso dell’umorismo piuttosto crudele. Perché sì, puoi scrivere “raccontami la storia di un pesce gatto in crisi di socializzazione” e Gemini ti confezionerà un racconto illustrato con tanto di voce narrante. Ma poi quel pesce, a pagina cinque, si sveglia con un braccio umano attaccato al fianco. E a quel punto, la magia si spezza. O meglio, si trasforma in un incubo surreale in salsa spaghetti code.

La parola chiave qui è “AI-generated children’s story”. Tre parole che dovrebbero indicare un futuro radioso di racconti personalizzati, arte generativa e immersione narrativa, ma che nei fatti ci ricordano che anche i grandi modelli linguistici sono come i bambini troppo cresciuti: pieni di potenziale, ma ancora incapaci di capire dove finisca il corpo di un pesce e inizi quello di un primate. Gli ingegneri di Google sembrano puntare tutto sulla suggestione, sulla “esperienza” e sulla capacità del modello Gemini di generare illustrazioni su richiesta in stile claymation, anime, fumetto e persino partendo da un disegno fatto a mano. L’idea è chiara: democratizzare la narrazione illustrata e renderla plug-and-play. Ma la realtà restituisce un patchwork di errori semiotici, stranezze anatomiche e incoerenze visive che svelano il trucco sotto il velo del marketing.

Ovviamente, chi mastica un po’ di intelligenza artificiale sa che il problema non è nel prompt. Non si tratta di scrivere meglio o spiegarsi in modo più dettagliato. Il cuore della questione sta nel modo in cui i modelli multimodali attuali, come Gemini, sintetizzano input testuali e visivi: una danza goffa tra reti neurali che ancora inciampano sulla semantica del contesto. Chiedi un gatto simpatico e ti restituiscono una creatura con cinque code e un’espressione che sembra uscita da un film di David Lynch. Chiedi una madre e un figlio davanti alla TV e ottieni una scena in cui lo schermo è sul retro del divano. Questi non sono semplici “glitch”, sono l’evidenza di una macchina che disegna mondi che non comprende.

C’è qualcosa di affascinante, quasi poetico, nel modo in cui l’AI fallisce. Ma non lasciamoci distrarre. Il marketing di Big Tech lavora senza sosta per vendere questi fallimenti come “imperfezioni creative”. Ma la verità, nuda e cruda, è che stiamo accarezzando una creatura che ancora non sa distinguere una favola da un’allucinazione. Gemini Storybook, in questo senso, è l’ennesimo tentativo di spacciare l’incompiuto per innovazione. E il pubblico, purtroppo, ci casca.

L’ironia più tagliente arriva nel momento in cui Google ti invita a caricare un disegno del tuo bambino per farne una storia. Il messaggio implicito è potente: “Fidati di noi, trasformeremo la fantasia in narrazione”. Ma l’effetto finale, spesso, è una parodia involontaria della creatività infantile, una specie di uncanny valley narrativa dove i personaggi fluttuano tra pose assurde e ambientazioni che sembrano partorite da un algoritmo sotto acido. Il tutto incorniciato da una narrazione testuale che ha lo spessore emotivo di un modulo per la dichiarazione dei redditi.

Questo non vuol dire che l’intera iniziativa sia da buttare. Come demo tecnologica, Storybook è brillante. È un’ottima vetrina per mostrare cosa potrebbe fare l’intelligenza artificiale narrativa quando (e se) sarà davvero pronta. Ma è fondamentale mantenere una lucidità chirurgica: quella che oggi ci viene proposta non è narrazione aumentata, è intrattenimento artificiale con ambizioni troppo alte. E quando si promette arte generativa senza una vera comprensione semantica, il risultato non è magia, ma farsa.

Siamo nel pieno di una corsa all’oro in cui ogni grande attore tecnologico cerca di dimostrare di avere la IA più creativa, più personalizzabile, più “umana”. Ma l’umanità non si simula con uno slider di stile grafico o una libreria di prompt precompilati. L’empatia narrativa, la coerenza simbolica e la tensione emotiva restano per ora fuori dalla portata dei modelli attuali. Il pesce gatto con il braccio umano non è solo un errore: è un simbolo. Un memento mori digitale che ci ricorda quanto sia facile cadere nell’illusione del progresso solo perché un’interfaccia è ben disegnata.

Sotto la patina colorata di Gemini Storybook c’è un vuoto di significato. Non per mancanza di dati, ma per assenza di intenzione vera. Una storia per bambini non è una sequenza di immagini carine e frasi semplici: è un codice archetipico che lavora sulla psiche, sui valori, sull’immaginazione. È uno spazio sacro in cui si formano i primi schemi cognitivi. Delegarlo a un algoritmo ancora privo di coscienza narrativa è come affidare l’educazione sentimentale a un generatore automatico di meme.

Eppure Google insiste. Perché ogni nuova feature di Gemini è un passo in avanti nel gioco della percezione. Non conta quanto bene funzioni. Conta che se ne parli. Conta che qualcuno pubblichi uno screenshot, che i blog tecnologici riempiano i feed, che si crei un senso di urgenza. “Guarda cosa può fare ora l’AI!” è diventato il mantra. Ma forse dovremmo iniziare a chiederci: “Perché lo fa così male?”. Non per demolire, ma per capire. Per avanzare in modo consapevole invece che correre accecati da una narrazione che, paradossalmente, ha smesso di raccontare qualcosa di vero.

La keyword “illustrated AI story” diventa allora un paradosso linguistico. La storia illustrata dovrebbe essere un connubio armonico tra immagine e parola. Ma in Storybook, le due componenti sembrano parlarsi a malapena. L’immagine tradisce la parola, la parola ignora l’immagine. Il tutto orchestrato da un’intelligenza che ancora non ha imparato a sentire, figuriamoci a raccontare.

Nel frattempo, i genitori entusiasti provano a generare favole per la buonanotte, i designer si divertono a testare stili bizzarri e gli influencer tech riempiono i social di pesci mutanti e TV invertite. È il circo digitale della narrazione post-umana, dove l’unica vera morale è che non tutto ciò che si può generare merita di essere letto. O guardato. O raccontato.