Se pensate che il settore dei videogiochi in Cina sia già saturo o abbia raggiunto un plateau evolutivo, è il momento di aggiornare il vostro software mentale. A giudicare dai segnali provenienti da ChinaJoy, la più grande fiera del digitale asiatico, la nuova corsa all’oro si chiama intelligenza artificiale. E non è una corsa qualsiasi. È un’accelerazione a curvatura che sta riscrivendo, byte dopo byte, l’intero processo creativo, produttivo e commerciale dell’industria videoludica cinese.
La narrativa classica dei videogame orientali fatta di grinding, microtransazioni e cloni seriali sta lasciando il posto a esperienze più reattive, adaptive e (udite udite) conversazionali. Questo grazie all’avanzata implacabile dei modelli di linguaggio di nuova generazione e alla loro integrazione sistemica nel ciclo vitale del videogioco, dalla prototipazione al customer engagement. Mentre l’Occidente si perde in dibattiti etici e regolamentazioni da tavolo ONU, la Cina ha già messo le mani sulla cloche e sta pilotando il gaming AI-first in una direzione molto più pragmatica e (sorpresa) redditizia.
Non è un caso che Huawei abbia scelto di calare il suo asso proprio a ChinaJoy: HarmonyOS, il suo anti-Android, ora ospita oltre 6.500 giochi, tra cui hit internazionali come Subway Surfers. Ma la vera perla è l’assistente AI Xiaoyi (alias Celia), che fa da scudo intelligente contro le intrusioni nel gameplay, risponde alle domande in tempo reale e si propone come mediatore tra interfaccia e giocatore. Non è solo assistenza, è una ridefinizione del concetto di “user experience” nel mobile gaming. Il confine tra sistema operativo e universo di gioco si sta dissolvendo in un continuum AI-driven, e Huawei lo sta disegnando a matita digitale molto affilata.
Il contesto economico conferma il trend. Il mercato gaming cinese ha registrato un +14% nel primo semestre dell’anno, raggiungendo quota 168 miliardi di yuan. Non stiamo parlando di un rimbalzo post-pandemico. È una crescita strutturale, guidata da investimenti governativi mirati e da un salto quantico nell’adozione tecnologica. La differenza, rispetto all’inerzia dell’anno precedente (+2%), è talmente marcata da sembrare scritta da uno sceneggiatore troppo ottimista. Ma è reale. Ed è tutta alimentata da AI.
Oggi l’intelligenza artificiale può fare molto di più nel gaming rispetto a pochi anni fa. Ed è solo l’inizio. La sua azienda lavora su agenti conversazionali avanzati e NPC capaci di dialoghi multi-turno credibili. Una sorta di ChatGPT con armatura e motivazioni personali, inserito nel flusso narrativo del gameplay. Non è più scripting, è dinamismo. E se pensate che sia solo una curiosità da laboratorio, sbagliate target: le major li stanno già integrando a ritmi da blitzkrieg.
Nel cuore pulsante della nuova frontiera 3D, Vast ha messo in vetrina Tripo AI, piattaforma di generazione automatica di ambienti tridimensionali, già adottata da NetEase per “Where Winds Meet”, un open-world RPG che si posiziona come risposta autoctona ai blockbuster occidentali. Se vi sembra che il nome ricordi “Ghost of Tsushima” o “Elden Ring”, non è un caso. Ma la differenza è che qui l’ambiente di gioco evolve grazie a un motore AI, non a decine di concept artist in crunch mode.
E mentre Tencent rilancia con il suo Hunyuan 3D World Model 1.0, modello open-source per ambienti generativi complessi, è evidente che la sfida non è più tra motori grafici o console, ma tra architetture di intelligenza artificiale capaci di modellare realtà sintetiche in tempo reale. Il videogame diventa un laboratorio di percezione artificiale, in cui la narrazione, l’interazione e persino la monetizzazione si fondono in esperienze autoregolanti.
Persino i piccoli studi come 37Games si stanno convertendo all’AI come piattaforma di crescita. È un caso di darwinismo algoritmico: o evolvi, o vieni espulso dal mercato. L’intelligenza artificiale non è un modulo opzionale, è il nuovo DNA produttivo. E questa mutazione genetica porta con sé non solo più efficienza, ma un cambio profondo nei modelli di business. Se i titoli tripla A sono il playground delle big corp, l’AI democratizza l’accesso alla creatività scalabile anche per i player minori, grazie alla generazione automatica di contenuti, testing predittivo e analytics comportamentali real-time.
L’interfaccia diventa soggetto attivo, non solo canale passivo. Quando un NPC non è più scriptato ma agisce in base a una policy di reinforcement learning, si innesca un ciclo adattivo che trasforma ogni partita in una esperienza leggermente diversa. La ripetizione cede il passo alla variazione, e la fedeltà dell’utente non si costruisce più con le ricompense, ma con l’imprevedibilità credibile. La fidelizzazione diventa una funzione della sorpresa ben calibrata.
Tutto questo ha implicazioni enormi anche fuori dall’ambito gaming. Il videogioco sta diventando il sandbox perfetto per addestrare, testare e raffinare intelligenze artificiali che domani potrebbero operare in ambiti ben più sensibili: dalla difesa alla sanità, dal customer care alla guida autonoma. Il fatto che Tencent o Huawei stiano investendo pesantemente non è solo una scommessa commerciale. È una strategia geopolitica sul controllo delle pipeline AI-native e sulla creazione di modelli proprietari difficilmente esportabili o replicabili in Occidente.
Non si tratta più di chi ha il miglior engine grafico, ma di chi controlla le fondamenta cognitive della nuova interazione uomo-macchina. E se l’Occidente non accelera, rischia di trasformarsi da protagonista creativo a semplice spettatore pagante. In fondo, come diceva Sun Tzu: “Conosci il tuo nemico e conosci te stesso, e in cento battaglie non sarai mai in pericolo”. Nel 2025, conoscere il proprio nemico significa leggere il changelog dell’ultima release AI di NetEase o Huawei.
Perché se oggi si gioca, domani si governa e chi vince nel gaming AI-driven, detta le regole del metaverso, della formazione automatizzata, persino del marketing cognitivo. Il joystick non è più un gioco. È il telecomando del mondo che verrà.