Non ci sono backdoor. Nessun kill switch. Nessuno spyware. Parola di Nvidia. Lo ha detto forte, chiaro e con tono quasi scandalizzato, come chi si sente accusato ingiustamente da un tribunale internazionale. Il gigante dei semiconduttori ha pubblicato un post sul proprio blog per ribadire che le sue GPU non sono il cavallo di Troia dell’Intelligence americana, né il braccio oscuro di una cyber-cospirazione geopolitica. Il che, detto da chi ha in mano l’infrastruttura AI globale, suona meno come una rassicurazione e più come una dichiarazione politica in piena guerra tecnologica.

Nvidia ha tutto da perdere se la narrativa globale comincia anche solo a suggerire il sospetto di vulnerabilità intenzionali nei suoi chip. Non parliamo solo di business, ma di fiducia strategica. Di sovranità digitale. Di egemonia sull’intelligenza artificiale. Il comunicato arriva in risposta diretta alla Cyberspace Administration of China, che ha avviato un’inchiesta sulla sicurezza dei chip H20, modello adattato per rispettare le restrizioni statunitensi all’export. Un prodotto già compromesso sul piano delle performance, ora anche sul piano della percezione pubblica. Non esattamente il miglior biglietto da visita per conquistare un mercato che rappresenta una quota significativa del fatturato.

In un ecosistema in cui la fiducia è la nuova valuta, dichiarare che “non esistono backdoor” è come un politico che giura di non aver mai evaso le tasse. Non basta dirlo. Serve prova forense, terze parti indipendenti, audit penetrativi e trasparenza brutale. Non per compiacere la Cina, ma perché l’equilibrio tra trasparenza e protezione degli asset tecnologici è ormai una delle sfide fondamentali nella nuova corsa all’AI. E mentre Nvidia cerca di smentire il sospetto, il Partito pubblica editoriali intitolati “Come possiamo fidarci di voi, Nvidia?”. Un titolo che non avrebbe sfigurato su un cartellone sovietico degli anni Cinquanta, ma che oggi vale miliardi in contratti saltati e alleanze messe in discussione.

David Reber Jr., Chief Security Officer della compagnia, sottolinea come le GPU siano usate ovunque: sanità, finanza, ricerca scientifica, guida autonoma, infrastruttura AI. Il che, invece di rassicurare, complica ulteriormente il quadro. Perché se esistesse anche solo una remota possibilità che un chip Nvidia possa essere disattivato o manipolato da remoto, l’intero tessuto digitale globale verrebbe esposto a una minaccia sistemica. Altro che spyware: sarebbe come affidare le chiavi della rete elettrica mondiale a un’entità opaca e non democratica. La sicurezza, dicono da Nvidia, si costruisce con il principio del “defence in depth”, una difesa a strati che previene la compromissione totale. Parole da manuale. Ma in tempi di sorveglianza algoritmica e tensioni tra Stati, il manuale non basta più.

Zhou Hongyi, CEO di 360 Group, ha detto pubblicamente ciò che molti pensano in privato. Nvidia, di suo, non ha interesse a sabotare i propri chip. Ma è soggetta alla pressione del governo statunitense. E questa ambiguità, questa coabitazione forzata tra innovazione privata e geopolitica imperiale, rende ogni rassicurazione tecnocratica irrilevante agli occhi dei regolatori cinesi. Non si tratta di paranoia, ma di calcolo strategico. Come si può costruire un’AI nazionale basata su chip prodotti da una compagnia americana che potrebbe, in caso di sanzioni o escalation, bloccare da remoto la capacità computazionale del paese?

L’ironia è che mentre Nvidia difende la sua integrità con post istituzionali, Huawei si presenta a Pechino con un regalo alla comunità sviluppatori: il rilascio open-source del proprio stack software AI, la Compute Architecture for Neural Networks. Un colpo non da poco alla supremazia del CUDA, il toolkit proprietario di Nvidia. Se gli sviluppatori cominciano a migrare, la dipendenza dalla piattaforma americana si attenua. E se il software è libero, la sorveglianza diventa più difficile. Così si costruisce resilienza, e in Cina lo sanno bene.

Nvidia, nel frattempo, cammina sul filo. Gli Stati Uniti le concedono licenze per continuare a vendere all’estero versioni castrate dei propri chip, una via di mezzo tra ciò che serve alla Cina e ciò che non spaventa Washington. Chim Lee dell’Economist Intelligence Unit suggerisce che in futuro potrebbero essere autorizzate esportazioni di chip leggermente più avanzati dell’H20. Una strategia che non risolve nulla, ma rallenta il declino dell’influenza americana nel campo AI. Un compromesso che non soddisfa nessuno, né l’ambizione tecnologica di Pechino né il bisogno di controllo di Washington.

Il paradosso è che l’hardware, una volta considerato neutro, oggi è il campo di battaglia di una guerra fredda digitale. I chip non sono più strumenti, ma vettori di influenza. L’equivalente moderno delle testate nucleari: oggetti piccoli, ma con potenziale devastante. E chi li possiede, li controlla, o li teme, si comporta di conseguenza. La Cina accelera nello sviluppo di chip domestici, migliora il software, forma talenti, replica architetture. L’Occidente si arrocca su licenze, restrizioni, modelli limitati.

Nvidia, dal canto suo, resta la regina del ballo. Ma una regina sotto assedio. Tra le pressioni americane e i sospetti cinesi, tra la competizione di Huawei e l’ascesa dei chip asiatici open-source, il suo modello chiuso e proprietario comincia a scricchiolare. E la frase “non ci sono backdoor” rischia di diventare il nuovo “trust me, I’m an engineer”. Irrilevante, se non accompagnata da fiducia distribuita e verificabile.

La posta in gioco non è solo la sicurezza dei chip. È la fiducia nell’intera architettura del mondo digitale. Un’architettura sempre più alimentata dall’AI, sempre più polarizzata, sempre meno compatibile con la narrativa da Silicon Valley anni Novanta. In quel mondo, bastava essere brillanti. In questo, serve essere sovrani.