Il circo dei semiconduttori è tornato in città. Con l’annuncio improvviso del presidente Donald Trump, ospite su CNBC, secondo cui l’amministrazione statunitense introdurrà nuove tariffe sui chip già dalla prossima settimana, l’industria tecnologica globale entra in una nuova fase di instabilità controllata. O forse sarebbe meglio dire incontrollabile, perché i dettagli di queste tariffe sono, come da copione, volutamente nebulosi. Una strategia comunicativa che somiglia più a una partita di poker con carte coperte che a una politica industriale coerente.
Il problema, naturalmente, non è solo il contenuto delle tariffe, ma il tempismo e il contesto geopolitico in cui arrivano. Con le esportazioni di chip AI già al centro del fuoco incrociato tra protezionismo, sicurezza nazionale e appetiti tecnologici globali, questo ulteriore atto rischia di mandare in fibrillazione non solo i produttori americani, ma l’intera catena del valore dell’intelligenza artificiale. La keyword è “semiconduttori”, ma le parole chiave semantiche sono “export AI”, “manifattura chip USA” e “CHIPs Act”. Ed è lì che la narrazione si fa davvero interessante.
Per chi avesse vissuto sotto una roccia negli ultimi tre anni, vale la pena ricordare che gli Stati Uniti producono oggi solo il 10% dei chip globali, nonostante oltre metà delle aziende leader del settore abbiano sede a San Jose, Santa Clara o dintorni. Una sproporzione che ha del ridicolo e che ha spinto il Congresso a firmare nel 2022 il CHIPs and Science Act, un piano da 52 miliardi di dollari in sussidi per stimolare la produzione domestica. Fantastico sulla carta. Ma, come sa chiunque abbia mai provato a costruire una fabbrica per semiconduttori, la teoria non fonde il silicio.
TSMC, il colosso taiwanese, ha accettato di investire almeno 100 miliardi di dollari negli Stati Uniti nei prossimi quattro anni. Ha ricevuto fondi dal governo, ha promesso impianti, ha tenuto conferenze stampa. Ma costruire fabbriche negli USA non è come farlo a Hsinchu. I costi sono più alti, la burocrazia più densa, le competenze locali meno specializzate. Risultato? Ritardi. Intel, tanto per fare un esempio domestico, ha già rinviato nuovamente l’apertura del suo impianto in Ohio, mettendo a nudo l’illusione di una supply chain tutta “made in America”.
Nel frattempo, l’amministrazione Trump sembra voler usare le tariffe come leva strategica per accelerare la riconfigurazione dell’industria. Ma qui sorge un paradosso: tassare chip che non si producono in quantità sufficiente a casa propria significa fondamentalmente penalizzare le aziende nazionali che li utilizzano. Le AI companies americane, da OpenAI a NVIDIA, sono tra le più esposte a questo rischio. Non tanto per i chip generici, quanto per quelli ad alte prestazioni destinati ai modelli linguistici avanzati, il vero oro nero digitale del XXI secolo.
La sensazione è che l’obiettivo sia duplice. Da una parte, spingere TSMC e simili a velocizzare i tempi e a localizzare la produzione negli Stati Uniti, dall’altra, creare un contesto normativo caotico per tenere i rivali – leggasi Cina – sempre in allerta. Una mossa di realpolitik tecnologica degna della guerra fredda. Peccato che oggi l’interdipendenza sia tale che colpire un nodo della rete spesso significa provocare cortocircuiti a catena. L’economia globale è un sistema distribuito, non un software centralizzato.
E parlando di regole distribuite, va menzionata la decisione di maggio di Trump di annullare le regole di esportazione AI introdotte sotto l’amministrazione Biden. Quelle regole, imperfette ma strutturate, prevedevano un approccio multi-livello e specifico per paese, con focus sulla sicurezza nazionale. Una logica chirurgica, forse troppo democratica per gli standard trumpiani, che preferiscono il bisturi mediatico alla diplomazia procedurale. Il nuovo AI Action Plan annunciato a luglio parla di restrizioni, ma lo fa con un linguaggio più ideologico che operativo. A chiudere i rubinetti ci si pensa domani, oggi si fa rumore.
Secondo fonti riportate da Semafor, la stessa amministrazione sta ora valutando se mantenere la linea dura o se riformulare in modo più strutturato le restrizioni. Una contraddizione che riflette perfettamente l’ossessione americana per il controllo del futuro digitale e, allo stesso tempo, la sua incapacità sistemica di costruirlo da sola. Se la Silicon Valley è la mente dell’innovazione, TSMC è la mano che la rende tangibile. E senza mano, la mente resta un’idea. Costosa, peraltro.
C’è qualcosa di ironico, se non tragicomico, nel vedere una superpotenza che investe decine di miliardi per rendersi indipendente da una catena di fornitura globale, salvo poi dover ricorrere a tariffe e divieti per guadagnare tempo. È come cercare di vincere una corsa fermando gli altri concorrenti, piuttosto che allenandosi meglio. Una strategia che può funzionare nel breve, ma che nel lungo termine alimenta solo inefficienze, rallenta l’innovazione e apre spazi a nuovi player. Perché mentre gli USA litigano con se stessi, l’India e il Sud-Est asiatico avanzano silenziosamente.
E qui arriva la stoccata finale: l’incertezza normativa è il peggior nemico del capitale privato. Nessuna big tech, nemmeno le più nazionaliste, investirà miliardi in una pipeline produttiva se il quadro regolatorio cambia ogni sei mesi al ritmo delle dichiarazioni TV. I chip non sono TikTok, non si producono né si spostano con un click. Servono anni, know-how, accordi sindacali, trattative interstatali e, soprattutto, una visione industriale solida, non un reality show geopolitico.
Il paradosso americano è evidente. Vuole dominare la corsa all’AI ma non sa decidere se correre, camminare o tagliare la pista. Oscilla tra protezionismo e globalismo, tra piani faraonici e realizzazioni timide, tra slogan e silicio. Il risultato è un’industria sempre più sotto pressione, un’Europa che guarda da lontano senza capire se applaudire o spaventarsi, e una Cina che continua a costruire in silenzio le sue alternative.
Quindi no, le nuove tariffe non risolveranno il problema. Ma lo renderanno più visibile. E in politica industriale, a volte, è proprio la visibilità il primo passo per l’implosione o la rivoluzione. La domanda è: gli USA vogliono davvero fare i chip, o solo far finta?