Chi si ostina a pensare che il traffico organico da Google sia una fonte stabile e perpetua, oggi somiglia a chi negli anni ’90 investiva tutto nei fax pensando che l’email fosse solo una moda passeggera. L’ecosistema della ricerca è entrato in una fase in cui le vecchie regole non valgono più e dove la keyword principale, “ai overview”, è diventata sia il boia che il salvatore delle strategie di content marketing. Non è un semplice cambiamento di interfaccia: è una riallocazione brutale del valore. L’utente ottiene la risposta senza cliccare, il publisher resta con le briciole, e Google si presenta come il mediatore indispensabile di un nuovo patto informativo in cui il clic non è più l’unità di misura del successo. È come se il supermercato avesse iniziato a servire assaggi illimitati e gratuiti di tutti i prodotti, riducendo l’incentivo ad acquistare.

Il punto non è più capire se “ai mode” e “ai overview” cannibalizzino o meno il traffico: è capire come trasformarli in moltiplicatori di visibilità senza restare bloccati nella nostalgia del SEO tradizionale. Liz Reid, capo di Google Search, può anche sostenere che queste funzionalità portino “più ricerche e clic di qualità”, ma la percezione nei corridoi dei publisher è diversa. Gli analytics raccontano un’altra storia: CTR in calo, flussi da ricerca che si assottigliano e un progressivo spostamento dell’attenzione dall’homepage alla risposta diretta. La contraddizione è lampante: Google dichiara che l’ecosistema web resta sano, ma gli stessi player del settore stanno dirottando risorse verso contenuti “AI-first” perché la realtà li costringe.
Il paradosso è che questa mutazione del search non è solo una perdita, è anche un test darwiniano. Aziende come People Inc., parte del gruppo IAC, hanno già compreso che se la visibilità non arriva più dalle SERP tradizionali bisogna inserirsi nei punti caldi della conversazione AI. Il traffico organico cala, ma le sessioni core crescono perché l’attenzione viene intercettata altrove. È una forma di guerriglia digitale in cui la capacità di apparire nei blocchi generati dall’AI vale più della posizione in classifica classica. Si tratta di un gioco più sporco e più tecnico, dove la semantica e la struttura delle informazioni contano più della keyword density, e dove ottimizzare per il “contesto” diventa più importante che ottimizzare per la “query”.
In pratica, stiamo assistendo alla nascita di un SEO post-organico. Non si tratta più di scrivere per l’utente e per l’algoritmo, ma di scrivere per l’AI che interpreta l’utente e decide se meritare una menzione nella sua risposta. Questo richiede una strategia che mescoli ottimizzazione semantica, formattazione invisibile, e un uso chirurgico di concetti correlati come “contenuti per ai overview” e “ottimizzazione per ai mode”. L’arte sta nel far apparire il contenuto inevitabile nella catena di ragionamento dell’AI, senza scadere in keyword stuffing o nella produzione di testi insipidi che nessuno leggerebbe se non fossero sintetizzati in un box.
Chi ha memoria storica ricorderà le prime grandi rivoluzioni di Google: Panda, Penguin, Mobile-first. Ogni volta la narrativa era la stessa: “Miglioriamo la qualità della ricerca, premiamo i contenuti utili”. Ogni volta, il significato reale era “chi non si adatta viene spazzato via”. L’introduzione massiva dell’AI nei risultati non è diversa, se non per un dettaglio: stavolta la fonte di traffico alternativa non è un’altra piattaforma di ricerca, ma la stessa Google, in una forma che riduce l’esposizione diretta. L’editore non perde solo il clic, perde anche il possesso della narrazione. Il contenuto diventa materia prima per un algoritmo che risponde con la sua voce, mentre il brand resta sullo sfondo, quando va bene.
Il fatto che Google si dichiari “impegnata nella salute dell’ecosistema web” ha un sapore ironico. È come sentire una multinazionale del fast food parlare di sana alimentazione. L’azienda non mente, semplicemente interpreta il concetto di salute a modo suo. Per Mountain View, un web “in salute” è un web che fornisce abbastanza materiale per alimentare le risposte AI, mantenendo gli utenti all’interno della sua piattaforma. La questione non è etica, è strategica: chi controlla il punto di contatto con l’utente controlla il valore.
Gli editori che sopravviveranno a questa trasformazione non saranno quelli che sperano in una regolamentazione salvifica, ma quelli che imparano a pensare come l’AI che li filtra. Significa capire come il modello genera risposte, come valuta l’autorevolezza, come combina fonti e contesto. Significa produrre contenuti che abbiano una doppia funzione: essere utili agli umani e irresistibili per il motore generativo. In questo scenario, il “vecchio” SEO diventa solo una delle armi, non la strategia intera. La vera leva sarà il “prompt engineering” applicato alla creazione di contenuti, ovvero la capacità di scrivere pensando a come l’AI formulerà la risposta, e non solo a come l’utente formulerà la domanda.
Esempi concreti di ottimizzazione stanno già emergendo. Un editore nel settore viaggi ha iniziato a creare micro-articoli con risposte precise e contestualizzate a domande complesse, sapendo che un’AI overview tende a privilegiare testi sintetici ma ricchi di riferimenti temporali e geografici. Invece di un lungo articolo “Le 10 migliori spiagge del Mediterraneo”, ha prodotto schede rapide come “Quando visitare Cala Goloritzé per evitare la folla” o “Come arrivare a Naxos con il traghetto notturno”. Il risultato è stato un aumento del 35% di citazioni nei box AI, con traffico indiretto generato dal riconoscimento del brand.
Nel settore finance, un portale di analisi economica ha ricostruito la propria strategia editoriale puntando su spiegazioni granulari di concetti complessi, organizzati in modo che l’AI potesse estrapolare definizioni e correlazioni in pochi secondi. Questo ha portato a essere inclusi regolarmente nelle risposte AI alle ricerche su “impatto del tasso di interesse sull’inflazione” o “analisi del rendimento obbligazionario”. L’effetto, misurato in lead qualificati, è stato superiore rispetto al vecchio SEO basato sul ranking puro.
Anche nel settore e-commerce si stanno vedendo approcci aggressivi. Un marchio di cosmetica indipendente ha iniziato a fornire contenuti educativi sui componenti dei prodotti, scritti in un linguaggio tecnico ma accessibile, con citazioni da studi scientifici. L’obiettivo non era vendere subito, ma diventare fonte autorevole che l’AI potesse citare quando un utente chiedeva “quali sono i benefici dell’acido ialuronico per la pelle”. Questo approccio ha spostato il funnel di conversione: meno clic immediati, ma una crescita costante del traffico diretto e della fidelizzazione.
Tutti questi esempi confermano che la sopravvivenza non passa dall’illusione di “battere” l’AI, ma dal diventare parte integrante del suo linguaggio. Ottimizzare per ai overview e ai mode significa riconoscere che l’algoritmo non è più un passaggio verso l’utente, ma un filtro cognitivo che decide cosa l’utente saprà di te. E in un contesto dove il clic diretto diventa un evento raro, il valore si misura nella capacità di restare presenti nella mente dell’utente anche dopo che ha letto la risposta senza visitare il tuo sito.
Il cambiamento è irreversibile. Il punto è se accettarlo da spettatori o se diventare architetti del proprio posizionamento nel nuovo panorama. Chi comprende questa logica oggi, domani non parlerà di calo di traffico, ma di trasformazione del canale. Gli altri continueranno a contare clic in via di estinzione, mentre il mercato si sarà già spostato altrove.