Il blog post di Netflix sull’uso dell’intelligenza artificiale generativa nei processi creativi sembra un manuale di buone maniere digitali, ma in realtà è un atto di pura autodifesa. Dietro la patina di etica e responsabilità si nasconde la verità più cinica: Netflix non vuole trovarsi né nei tribunali né sulle prime pagine dei giornali come il simbolo della Hollywood che ruba l’anima agli attori attraverso la macchina algoritmica. È un documento che serve meno ai registi e più agli avvocati, meno ai creativi e più agli investitori. Non è una guida, è un disclaimer travestito da manifesto etico.
La scelta delle parole è chirurgica. Si parla di “responsabilità”, di “consenso”, di “protezione dei dati”. Ma il sottotesto è inequivocabile: non imputate a noi l’uso improprio della tecnologia, scaricate la colpa a chi la implementa. Netflix si limita a erigere una cornice legale, un recinto dentro il quale i partner devono muoversi, così da spostare la responsabilità giuridica a valle. È la classica strategia del colosso che vuole apparire etico mentre si assicura che eventuali danni reputazionali o cause legali non ricadano sulla sua testa.
Il momento non è casuale. Dopo mesi di scioperi di attori e sceneggiatori che hanno posto l’uso dell’AI al centro della battaglia sindacale, Netflix non può permettersi di sembrare l’azienda che sostituisce le persone con modelli generativi. Serviva un segnale: ai sindacati, agli osservatori ESG, agli investitori che monitorano i rischi legati all’intelligenza artificiale. E il segnale è questo documento che proclama principi etici, ma al tempo stesso impone controlli serrati su tutto ciò che potrebbe sembrare un abuso dell’AI.
C’è ironia nel leggere che l’AI può essere usata solo in “ambienti enterprise sicuri” e solo per generare contenuti temporanei, non finali. In pratica, Netflix ammette che l’intelligenza artificiale generativa è utile finché resta confinata nel ruolo di giocattolo creativo, ma diventa tossica se entra nella catena del valore ufficiale. Il paradosso è evidente: si celebra la tecnologia come strumento di innovazione, ma la si riduce a una demo, un prototipo, un supporto da cestinare quando si arriva al prodotto finito.
La realtà è che Netflix è un datacenter travestito da studio creativo. Ogni contenuto è pipeline, supply chain, processo industriale. L’AI generativa viene vista come un rischio per la continuità operativa, non come un alleato creativo. Ogni principio etico citato è in realtà un KPI di rischio legale. “Non replicate talent senza consenso” equivale a “non vogliamo un’altra guerra con gli attori”. “Non inserite dati sensibili nei modelli” significa “non fateci finire su Wired perché i nostri script sono stati usati per allenare un modello cinese”. È compliance pura, mascherata da filosofia morale.
La cosa più affascinante è il tempismo. L’AI creativa è diventata mainstream, la curiosità dei produttori è alle stelle, e Netflix pubblica un documento che sembra incoraggiare ma in realtà frena. Non è un caso: la vera battaglia non è sulla tecnologia, ma sulla narrazione. Netflix deve apparire come il colosso progressista che abbraccia l’innovazione, ma senza sembrare l’entità distopica che cancella i confini tra attori reali e simulazioni digitali. Il suo messaggio subliminale è semplice: l’intelligenza artificiale generativa sì, ma solo sotto il nostro controllo, solo dentro i nostri recinti, solo quando non minaccia il nostro modello di business.
Ecco perché questo post non è un manifesto creativo ma un contratto implicito con tre interlocutori: sindacati, mercati e opinione pubblica. Chi lo leggerà come un invito all’uso libero della tecnologia si sbaglia. È piuttosto un warning: l’AI è ammessa, ma solo se Netflix resta al centro, come arbitro e come giudice. In fondo la piattaforma non vuole che l’AI generi contenuti, vuole che generi conformità. Perché nel nuovo cinema algoritmico, la sceneggiatura più importante non è quella di una serie TV, ma quella legale.