Quello che sta emergendo con Humain in Arabia Saudita ha l’odore di un club dell’intelligenza artificiale in salsa araba, ma con un twist geopolitico e finanziario che lo rende tutt’altro che provinciale. Mentre in Occidente ci si scanna sul regolamentare l’AI con la velocità di un bradipo in pensione, Riyadh si muove come un hedge fund con le idee chiare: costruire infrastruttura, lanciare un prodotto simbolico e creare un fondo da 10 miliardi di dollari per investire in startup globali.
La parola chiave è ovviamente “sovranità tecnologica”, anche se il lessico ufficiale preferisce parlare di “leadership innovativa”. La differenza è sottile ma cruciale, perché dietro al chatbot in arabo si cela l’ambizione di sedersi al tavolo grande dell’AI, quello dove oggi dominano Stati Uniti e Cina.
Humain Chat, basato sul modello ALLAM 34B, non è solo l’ennesimo chatbot generativo. È il primo segnale di un Paese che vuole trasformare l’AI in leva strategica, sia culturale che economica. Partire dalla lingua araba non è casuale: significa colonizzare digitalmente un mercato linguistico enorme, spesso trascurato da Big Tech, e contemporaneamente mandare un messaggio simbolico alla comunità internazionale. La narrazione è chiara: se vuoi parlare con mezzo miliardo di persone in arabo, devi passare attraverso Riyadh.
Il sostegno del Fondo di Investimento Pubblico dell’Arabia Saudita non è beneficenza, è geopolitica travestita da venture capital. Mentre si parla di raccolta fondi da AMD e Cisco per una divisione cloud, il quadro appare come un puzzle perfetto: hardware americano, capitale saudita, modelli linguistici sviluppati in casa e partnership globali come carta da gioco per entrare nel campionato maggiore. Se Silicon Valley ha fatto dell’AI un prodotto di massa e Pechino un braccio esteso dello Stato, Riyadh sembra voler fondere i due approcci.Il riferimento a Groq, la startup californiana che sviluppa chip ottimizzati per intelligenza artificiale, è un altro indizio. Non è solo questione di potenza computazionale. È il segnale che i sauditi hanno capito una lezione semplice: senza controllo sull’hardware non c’è AI sovrana. E se Groq oggi tace, non è perché non ci siano accordi in corso, ma perché nessuna azienda americana ama finire nelle note a piè pagina di un progetto che profuma di geopolitica petrolifera travestita da cloud.
Definire Humain “un nuovo club dell’AI” non è un’esagerazione. Lo è perché sta costruendo un ecosistema parallelo, con le proprie regole, i propri fondi, i propri modelli linguistici. Lo è perché cerca alleati con capitali e know-how, promettendo in cambio accesso a mercati e risorse che non hanno eguali. Lo è soprattutto perché manda un messaggio preciso a chi oggi domina il settore: non sarete più soli.
In fondo la vera partita non si gioca solo sui chatbot o sui modelli da 34 miliardi di parametri. La partita è il controllo dell’immaginario digitale, di chi detta le regole della conversazione online, di chi decide quali lingue e quali culture hanno un posto nell’era delle macchine pensanti. In questo senso Humain non è un giocattolo, è una dichiarazione di intenti. Un nuovo attore che non vuole entrare da ospite nel club dell’AI, ma costruirne uno proprio, con tanto di portafoglio miliardario e ambizione di leadership globale.