Google:

Finally, while Plaintiffs continue to advance essentially the same divestiture remedies they noticed in their complaint filed in January 2023, the world has continued to turn. Plaintiffs put forth remedies as if trial, the Court’s liability decision, and remedies discovery never happened—and also as if the incredibly dynamic ad tech ecosystem had stood still while these judicial proceedings continued.

But the changes have been many: AI is reshaping ad tech at every level; non-open web display ad formats like Connected TV and retail media are exploding in popularity; and Google’s competitors are directing their investments to these new growth areas. The fact is that today, the open web is already in rapid decline and Plaintiffs’ divestiture proposal would only accelerate that decline, harming publishers who currently rely on open-web display advertising revenue. As the law makes clear, the last thing a court should do is intervene to reshape an industry that is already in the midst of being reshaped by market forces.

Google ha scritto questo in una memoria processuale. Non è un titolo sdramatico del blog, è un documento legale. La frase “il web aperto è già in rapido declino” compare al centro di un dibattito che mescola strategia legale, trasformazioni del mercato e punti di vista contrapposti su cosa significhi “salvare” gli editori.

Parto da qui perché è il nucleo della questione: Google ha inserito in un filing giudiziario una frase che può essere letta in due modi. Da un lato serve a supportare una argomentazione legale, secondo la quale una divestitura nell’ad tech accelererebbe trend di mercato già in corso; dall’altro lato appare in contrasto con le dichiarazioni pubbliche dei vertici aziendali che negano un collasso del traffico web. La notizia è stata ripresa da fonti specializzate e da commentatori del settore.

La contestualizzazione legale conta. Nel documento Google dice che l’ecosistema pubblicitario è “incredibilmente dinamico”: l’ascesa delle piattaforme di connected tv e delle reti di retail media, l’impatto dell’intelligenza artificiale sui formati pubblicitari e gli investimenti dei competitor sono tutti elementi citati per motivare perché un intervento giudiziario potrebbe “accelerare” il declino dell’open-web display advertising. Quel passaggio è reale e va preso alla lettera: Google sta parlando di open-web display advertising, non di web in totale, e lo dice anche un portavoce dell’azienda.

Questo non risolve il paradosso. Se Google si trova a sostenere che il mercato sta cambiando e che una spaccatura forzata potrebbe danneggiare gli editori, bisogna accostare questa argomentazione ai fatti empirici. C’è un rapporto recentissimo di Pew Research che mostra come gli utenti siano molto meno propensi a cliccare i link tradizionali quando una sintesi AI è presentata nella pagina dei risultati; in termini numerici, le visite che portano a click si abbassano significativamente quando compare un “ai overview”. Questo è un dato che interseca esattamente la discussione sulla riduzione del traffico verso siti esterni.

Google non sta taciando sulla realtà della perdita di click. L’azienda ha pubblicato dati e argomentazioni in cui afferma che il volume complessivo di click organici verso i siti è “relativamente stabile” rispetto all’anno precedente e che i click di qualità sono addirittura in crescita. Questa è la controparte numerica del racconto legale: se i click generati da search restano stabili, l’ipotesi di un “web in declino” suona differente. La coesistenza di queste due letture è la ragione per cui occorre essere scrupolosi nella verifica dei fatti.

La giustizia ha già preso posizioni serie sul mercato della pubblicità digitale. Il dipartimento di giustizia ha vinto una causa sulla monopolizzazione della pubblicità open-web e ci sono state sanzioni e decisioni che dimostrano come le autorità guardino al problema con serietà. Questo sottolinea che non si tratta solo di una discussione tra PR e media, ma di un conflitto che ha conseguenze normative e finanziarie concrete.

Chi ha segnalato la frase? Un osservatore del settore, Jason Kint, ha richiamato l’attenzione sull’estratto di filing, e la notizia è poi rimbalzata su siti di settore come search engine roundtable. Chi legge con occhio critico sa che un meme si forma quando un estratto legale viene estrapolato e messo in titolo: monta l’indignazione, ma poi serve la verifica testuale. Ho ricontrollato il documento e la frase c’è. Non è un’interpretazione creativa di un giornalista, è una citazione che Google ha inserito nella sua difesa processuale.

La replica di Google è classica: “cherry-picked line”. La portavoce Jackie Berté ha dichiarato che la frase è stata estratta fuori dal contesto e che l’azienda riferiva specificamente ai ricavi della pubblicità display nell’open-web, non al web nel suo complesso. La precisa ambiguità del linguaggio giuridico diventa qui un’arma doppia: utile in tribunale, pericolosa sulla piazza pubblica.

Quali fatti possiamo dare per buoni ad oggi. Primo, il filing contiene davvero la frase sospetta; secondo, Pew ha misurato una riduzione dei click quando compare un riassunto AI; terzo, Google pubblica dati che dicono il contrario sui click complessivi; quarto, le autorità antitrust hanno già vinto cause contro Google nell’ad tech, con conseguenze reali per l’azienda e per gli editori. Mettere insieme questi elementi serve a capire che non è un “fake”, ma piuttosto una collisione di dati, interpretazioni e obiettivi legali.

Cosa significa per un editore medio con un modello basato sulla pubblicità display? Significa che esistono due forze contrapposte: da un lato la tecnologia cambia il comportamento degli utenti, riducendo i click quando l’AI offre risposte immediate; dall’altro lato i budget pubblicitari si spostano verso canali che non passano per l’open-web, come connected tv e retail media. Il mix di queste dinamiche riduce l’attrattiva economica della pubblicità display tradizionale. La conseguenza pratica è che gli editori devono rivedere le loro strategie di monetizzazione, non aspettare che il tribunale li “salvi”.

Non è tutto nero. Ci sono modi per mitigare l’impatto: diversificare le entrate, investire in prodotti proprietari, migliorare l’ottimizzazione per i formati dove l’AI porta traffico, usare paywall e comunità paganti. Ho letto mezze soluzioni proposte dagli editori che vanno dal rinnegare Google a stringere accordi diretti con piattaforme di retail media. Nessuna di queste strategie è miracolosa, ma tutte sono pratiche. Il punto qui non è lamentarsi, è ridisegnare: i mercati cambiano, i modelli devono adattarsi. Questo è il messaggio che le citazioni giudiziarie non possono mascherare.

Un avvertimento sul linguaggio dei documenti legali. Le frasi possono essere mirate a creare uno scenario preferibile al tuo cliente. Quando un big tech dice “il mercato sta cambiando”, spesso sta anche dando al giudice una ragione per non intervenire in modo distruttivo per l’azienda. Interpretare questo come un’ammissione di colpa totale sarebbe un errore. Interpretarlo come un segnale che i trend tecnologici stanno davvero spostando budget e comportamenti di navigazione, invece, è corretto.

Curiosità per chi segue il settore: Google continua a pagare miliardi per essere motore predefinito su dispositivi di terzi. Questo non è un dettaglio minore nella guerra per il traffico. Gli accordi di default, i cambi di interfaccia utente e le funzionalità AI hanno tutti effetti sulle metriche di click e sulla distribuzione dei ricavi. Non c’è un singolo fattore causale, ma un complesso di incentivi che spiega perché il dibattito sulla “rottura” dell’ad tech è così acceso.

Cosa aggiungere al testo originario per renderlo più accurato. È necessario specificare che Google, nel filing, sta parlando specificamente di open-web display advertising quando menziona il declino, e che fonti indipendenti come Pew hanno trovato riduzioni nei click quando compare un AI overview. Allo stesso tempo bisogna riportare la posizione di Google sul mantenimento di click “relativamente stabili” e la vittoria del dipartimento di giustizia in un caso che accerta abusi nel settore ad tech. Queste tre coordinate offrono un quadretto completo della situazione, minimizzando il rischio di estrarre una frase fuori contesto.

Conclusione provocatoria ma pratica: non è che il web muore, è che alcune parti dell’ecosistema stanno perdendo terreno economico. Gli editori che si aggrappano al passato e aspettano un intervento giudiziario salvatore potrebbero scoprire che il mercato si è già spostato. Chi capisce la differenza tra “declino dei ricavi di pubblicità display nell’open-web” e “morte del web” avrà un vantaggio competitivo. Le parole nei filing contano, ma i numeri e i cambi di budget contano di più.