Quando Geoffrey Hinton parla, la comunità tecnologica dovrebbe smettere di twittare meme sull’ultima startup di moda e ascoltare. È l’uomo che ha dato forma a reti neurali e deep learning prima che i venture capitalist imparassero a pronunciare “backpropagation”.

Se oggi i CEO della Silicon Valley possono raccontare al mondo che l’intelligenza artificiale è il motore della nuova rivoluzione industriale, è anche grazie a lui. Ed è proprio lui a ricordarci che questa rivoluzione non è la festa inclusiva che gli spot pubblicitari di Microsoft e Google ci vogliono vendere, ma un potenziale disastro sociale ed economico.

Il tema è l’impatto economico dell’AI, e la sua analisi suona più come un necrologio del lavoro umano che un inno al progresso. Hinton non si nasconde dietro formule diplomatiche. Dice che la società non è pronta, che il capitalismo userà l’AI per ridurre i costi e massimizzare i profitti, che la disuguaglianza economica si allargherà fino a diventare un abisso e che la perdita di posti di lavoro sarà massiccia. Chi oggi festeggia i guadagni di produttività domani si ritroverà a spiegare perché milioni di persone non hanno più un impiego. E la cosa più inquietante è che non è la tecnologia a essere cattiva, ma il sistema in cui opera.

Hinton non predica scenari distopici perché ama la fantascienza. La sua diagnosi è brutale ma razionale. L’AI è già abbastanza matura per sostituire interi segmenti di forza lavoro. Non è un rischio remoto, è una traiettoria inevitabile. Call center, customer service, analisi di dati, logistica, parte della programmazione stessa: tutte attività che possono essere automatizzate da algoritmi che non chiedono ferie, non si ammalano e soprattutto non contrattano aumenti salariali. Non serve immaginare un futuro fantascientifico: il processo è già in corso e accelera con la voracità tipica delle tecnologie esponenziali.

I profitti cresceranno, inutile fingere il contrario. I colossi che detengono capitale e proprietà intellettuale guadagneranno come mai prima. Gli azionisti si arricchiranno, i fondi di investimento si gonfieranno, la finanza celebrerà trimestri record. Eppure, dall’altra parte della barricata, la maggioranza dei lavoratori sperimenterà una realtà ben diversa: contratti ridotti, stipendi stagnanti, una corsa disperata a reinventarsi mentre la macchina spinge avanti senza guardarsi indietro. In questo contesto la disuguaglianza economica non è un effetto collaterale, è la logica conseguenza di un sistema che premia chi possiede il capitale e punisce chi vende tempo e competenze.

Non a caso Hinton smonta l’illusione coltivata da alcuni leader tecnologici. Quelle dichiarazioni patinate che raccontano l’AI come un dono universale all’umanità suonano come propaganda interessata. Non si tratta di bontà collettiva, ma di una lotta feroce per il controllo di infrastrutture digitali che diventeranno più importanti del petrolio. Le aziende non investono miliardi per “democratizzare” la tecnologia, investono per dominare mercati globali e monopolizzare i flussi di valore. Il resto sono favole raccontate a giornalisti compiacenti e governi distratti.

Il vero nodo, però, non è l’AI in sé. Qui Hinton mette il dito nella piaga con un’osservazione che pochi hanno il coraggio di fare: il problema è il capitalismo stesso. Un sistema economico che premia l’efficienza sopra ogni altra cosa inevitabilmente sfrutterà l’AI come strumento di riduzione dei costi. Non importa se questo significa buttare sul lastrico milioni di persone. In un contesto simile parlare di etica e governance sembra quasi un lusso intellettuale, quando il motore fondamentale è l’accumulazione di profitti. È una dinamica sistemica, non tecnica.

C’è chi risponde a questo quadro con l’argomento classico: ogni rivoluzione industriale ha distrutto posti di lavoro ma ne ha creati di nuovi. Sì, ma l’AI è diversa. Non stiamo parlando solo di automazione fisica o meccanica, ma della capacità di replicare funzioni cognitive, creative, decisionali. Non è più solo il braccio della catena di montaggio a essere sostituito, è il cervello dell’analista, del consulente, persino del programmatore. Quando la macchina inizia a replicare pensiero e linguaggio, lo spazio residuo per l’umano si restringe con un ritmo molto più rapido di quello visto nelle transizioni precedenti.

Lo stesso Hinton non nasconde le implicazioni psicologiche e sociali di questa perdita di lavoro. Non basta distribuire un reddito di base universale per compensare. Certo, può evitare che la gente muoia di fame, ma non ridà dignità, status, senso di scopo. Il lavoro non è solo un mezzo di sostentamento, è una forma di identità. Toglierlo in massa senza alternative significa creare una società di spettatori passivi mantenuti artificialmente in vita, un modello che ricorda più Wall-E che un futuro di progresso.

C’è poi la dimensione geopolitica. Hinton osserva che mentre la Cina e altri paesi guidati da ingegneri tendono a prendere sul serio i rischi dell’AI, gli Stati Uniti sembrano più inclini a lasciar correre, prigionieri della lobby tecnologica e di un’ideologia che considera ogni regolazione come un ostacolo alla crescita. Il risultato è una corsa globale in cui chi frena rischia di perdere competitività, e chi accelera rischia di scatenare danni sistemici non controllabili. È il classico dilemma del prigioniero applicato a livello planetario.

Parlare di rischio sistemico dell’AI significa proprio questo: non è una minaccia locale, è una forza capace di destabilizzare intere economie e società. Se non gestita, può amplificare polarizzazioni, alimentare conflitti sociali, persino minacciare la stabilità politica. Perché quando la maggioranza della popolazione si sente tagliata fuori dal progresso, la storia insegna che il passo successivo non è la rassegnazione, ma la rivolta.

Alcuni sostengono che l’allarmismo di Hinton rischi di soffocare l’innovazione positiva. Dicono che l’AI può salvare vite, migliorare l’istruzione, accelerare la transizione energetica. E hanno ragione, ma il punto non è negare i benefici. È smascherare la narrativa tossica che li usa come foglia di fico per giustificare la corsa a un’adozione selvaggia e deregolata. Hinton non è contro l’AI. È contro l’idea che si possa ignorare il prezzo sociale.

Il paradosso è che tutti conosciamo già la soluzione, ma fingiamo che sia troppo difficile da realizzare. Servono politiche di redistribuzione, sistemi fiscali capaci di riequilibrare il potere economico, investimenti massicci in riqualificazione professionale, reti di protezione sociale che non siano cerotti provvisori ma infrastrutture permanenti. Servono istituzioni internazionali capaci di regolare la tecnologia a livello globale, perché nessun paese da solo può gestire il rischio sistemico dell’AI. Ma la distanza tra il sapere cosa fare e il farlo davvero è abissale, soprattutto quando gli interessi in gioco valgono trilioni di dollari.

La verità è che le aziende non smetteranno di inseguire l’automazione. Per loro è una questione di sopravvivenza competitiva. Un CEO che oggi decidesse di non adottare AI per proteggere i lavoratori verrebbe sostituito dal consiglio di amministrazione domani mattina. Il mercato punisce chi rallenta, premia chi taglia costi. È un meccanismo che non conosce pietà. E qui ritorna la crudezza della diagnosi di Hinton: se non si cambia il sistema di incentivi, l’AI continuerà a essere uno strumento di concentrazione di ricchezza e di erosione sociale.

Gli ottimisti preferiscono pensare che il mercato troverà da sé un equilibrio, che nuove professioni emergeranno spontaneamente, che l’adattamento umano è infinito. Ma questa fede cieca nell’elasticità del lavoro ricorda più un dogma religioso che un’analisi razionale. Certo, nuovi mestieri nasceranno, ma sarà sufficiente la loro scala per assorbire milioni di persone? E soprattutto, saranno accessibili a chi oggi lavora in settori fragili, con basse competenze digitali, con poca mobilità sociale? È un’illusione comoda, ma un’illusione comunque.

L’impatto economico dell’AI non è un film che possiamo mettere in pausa. È un processo in corso che chiede risposte immediate, non riflessioni accademiche. La perdita di posti di lavoro non è un rischio teorico, è una realtà che molte aziende stanno già sperimentando, spesso con licenziamenti silenziosi mascherati da riorganizzazioni. La disuguaglianza economica non è un concetto sociologico, è un dato che cresce anno dopo anno e che l’AI rischia di esasperare. Il rischio sistemico dell’AI non è un titolo da giornale, è la possibilità concreta che intere società scivolino verso instabilità cronica.

Se il “padrino dell’AI” suona l’allarme, ignorarlo sarebbe da irresponsabili. Non si tratta di avere paura della tecnologia, ma di avere il coraggio di guardare in faccia il sistema che la governa. La domanda vera non è se l’AI ci ruberà il lavoro, ma se abbiamo ancora la volontà politica e collettiva di impedire che rubi anche la nostra coesione sociale.