Prima la sanità pubblica, poi le case farmaceutiche durante la pandemia. Oggi il bersaglio preferito delle teorie del complotto è la fisica. Un gruppo di YouTuber e podcaster ha attirato milioni di spettatori proclamando che la fisica è in crisi. Tra loro spicca Sabine Hossenfelder, fisica tedesca diventata celebrità digitale proprio perché attacca frontalmente i colleghi:

“Il vostro problema è che state mentendo alle persone che vi pagano. Il vostro problema è che siete codardi senza un briciolo di integrità scientifica”.

La frase è più tagliente di un rasoio e ha il pregio, in un mondo assetato di indignazione, di trasformare la scienza in uno spettacolo.

Perché la fisica diventa facile bersaglio? Una ragione è evidente. Non ci sono state scoperte negli ultimi decenni capaci di rivaleggiare con i transistor, i circuiti integrati, l’energia nucleare, il radar, i laser, i polimeri, le cure per polio e penicillina, o i LED che hanno letteralmente cambiato il mondo negli anni quaranta, cinquanta e sessanta. Tutto questo prima ancora che i governi ampliassero massicciamente il finanziamento pubblico alla scienza.

Oggi invece gli investimenti sono giganteschi, i laboratori spettacolari, ma il cittadino medio non vede il corrispettivo nella sua vita quotidiana. Non basta dire che ci sono progressi teorici, serve un nuovo prodotto tangibile che migliori la vita e dia la percezione che i soldi spesi in ricerca non siano bruciati in acceleratori sotterranei.

I video complottisti fanno leva su questo vuoto. Sostengono che la fisica non abbia prodotto nulla di rilevante negli ultimi cinquant’anni perché è dominata dal pensiero unico e mette a tacere chi osa dissentire dalle idee mainstream come la teoria delle stringhe.

Il frame funziona perché non richiede di capire equazioni differenziali o integrali di Feynman. Basta afferrare un concetto semplice: l’accademia della fisica non è altro che un altro establishment corrotto, autoreferenziale, che difende se stesso più che la verità. Non importa se sia vero o falso, ciò che importa è che il messaggio scalfisce la credibilità e alimenta il sospetto.

C’è un punto però in cui i critici hanno gioco facile. La produttività scientifica, misurata in output tangibili e rivoluzionari, sembra essersi rallentata dagli anni settanta. La teoria delle stringhe non ha mantenuto le promesse di essere la teoria ultima capace di unificare tutte le forze e la materia dell’universo.

Il Large Hadron Collider, il più grande acceleratore di particelle del mondo, acceso nel 2010 tra fanfare e attese messianiche, ha prodotto meno scoperte di quelle che gli scienziati avevano venduto all’opinione pubblica. La distanza tra hype e risultati è il carburante ideale per chi vuole gridare al complotto.

La situazione diventa ancora più fragile quando entra in gioco la politica. L’amministrazione Trump ha tagliato miliardi dal budget della National Science Foundation e ha pianificato ulteriori riduzioni. Le carriere dei fisici si restringono, molti devono andare all’estero per sopravvivere.

Inizia a farsi strada la consapevolezza di quanto la fisica dipenda non solo dai laboratori ma dalla legittimità pubblica. Senza consenso sociale, il flusso di finanziamenti rischia di inaridirsi. È un paradosso crudele: la fisica teorica si occupa di universi paralleli e dimensioni nascoste, ma non riesce a difendere il proprio spazio politico e finanziario nel mondo reale.

Leonard Susskind, professore di Stanford e padre spirituale della teoria delle stringhe, replica con fermezza che il progresso non si è affatto fermato. Secondo lui, il lavoro sull’integrazione della relatività generale e della meccanica quantistica, i due pilastri centenari della fisica, procede senza sosta ed è di importanza storica. Una dichiarazione elegante, certo, ma che rivela il vero problema. Nessuno di questi avanzamenti ha l’impatto percepibile di un transistor o di un LED.

Il pubblico non è stupido: sa riconoscere quando una scoperta migliora concretamente la vita e quando invece resta confinata in un paper specialistico. Il cittadino medio non legge “Physical Review Letters”, legge la bolletta elettrica, guarda lo smartphone, si accorge se una tecnologia abbassa i costi o amplia le possibilità. Laddove non vede benefici diretti, cresce il sospetto che i fisici stiano solo giocando con acceleratori miliardari.

La cosiddetta fisica del complotto prospera proprio in questo spazio di disillusione. Non ha bisogno di convincere con equazioni, basta insinuare che l’accademia sia autoreferenziale, lenta, arroccata, incapace di mantenere le promesse.

È lo stesso schema che ha funzionato con la sanità e i vaccini: non importa la complessità della biologia molecolare, basta suggerire che dietro ci sia un sistema che mente per difendere se stesso. E quando un’autorità perde credibilità, non è la complessità a vincere ma la semplicità dell’attacco.

La domanda che resta sospesa è tanto banale quanto inquietante: quanto a lungo la fisica potrà giustificare il proprio budget senza offrire al pubblico una nuova rivoluzione tangibile?

Perché se è vero che i transistor e i laser hanno avuto bisogno di decenni prima di trasformarsi in prodotti commerciali, è altrettanto vero che oggi la pazienza collettiva è più corta. Il ciclo dell’hype è accelerato, la società digitale brucia icone alla velocità di un trend di TikTok. Se la fisica non consegnerà un nuovo oggetto o processo capace di entrare nelle case e negli uffici, rischia di essere risucchiata nella stessa sfiducia che ha colpito altri ambiti scientifici.

Forse il problema non è la scienza ma la narrativa che la scienza ha scelto per giustificarsi. La fisica si è venduta come la frontiera ultima, la disciplina che spiega tutto. Ma se il tutto non produce effetti percepibili nel quotidiano, la promessa diventa un boomerang.

Non bastano Nobel e papers, serve un impatto tangibile. Altrimenti la legittimità evapora e le teorie del complotto, con la loro semplicità corrosiva, diventano più convincenti del lavoro silenzioso dei laboratori.