Bisogna abbonarsi a RiverMind, a soli 300 $ al mese. Common People – Black Mirror – (Cit. N. Grandis)

La corsa all’intelligenza artificiale sta assumendo una direzione sempre più chiara, se si leggono tra le righe i post di Sam Altman. La promessa di OpenAI di lanciare soluzioni “ad alta intensità di calcolo” non è un dettaglio banale: indica un cambio di paradigma nella gestione della potenza computazionale e, soprattutto, nella monetizzazione dei suoi servizi. Il fatto che queste novità siano riservate inizialmente agli abbonati Pro, con costi già significativi di 200 dollari al mese e possibili sovrapprezzi, suggerisce che la strategia di OpenAI non è più solo democratica o orientata alla diffusione, ma punta a selezionare un’utenza disposta a pagare per accedere al massimo della performance.

Il concetto espresso da Altman è quasi darwiniano: “scoprire cosa si può fare quando si investono grandi quantità di risorse di calcolo, ai costi attuali dei modelli, in idee nuove e interessanti”. Tradotto in termini pratici, significa che la potenza di calcolo, oggi distribuita su quasi un miliardo di utenti con limitazioni diverse tra versioni gratuite e a pagamento, domani sarà concentrata su una nicchia che può permettersi di sperimentare senza compromessi. La selezione naturale non è più solo metafora: diventa un filtro economico e tecnologico.

Questa scelta ha implicazioni profonde per chi segue il settore IA da vicino. L’accesso a modelli più potenti sarà limitato, non perché la tecnologia non esista, ma perché i costi di calcolo elevati rendono impraticabile la distribuzione di massa. OpenAI sta quindi creando una gerarchia implicita tra utenti: chi paga di più ottiene di più, mentre la maggioranza resterà confinata ai livelli standard. In un certo senso, è un ritorno al modello dell’early adopter premium, con la differenza che qui il “premium” non è solo un lusso, ma una condizione per esplorare le frontiere dell’IA.

Altman, con la solita diplomazia, sottolinea che l’obiettivo di OpenAI rimane quello di “ridurre il più possibile i costi dell’intelligenza” e rendere i servizi ampiamente disponibili. Tuttavia, la realtà dei fatti sembra più orientata alla monetizzazione immediata. Le prestazioni dei modelli gratuiti o base hanno sofferto, probabilmente a causa della scarsità di risorse computazionali o di limiti gestionali. La soluzione proposta è semplice: pagare di più per ottenere risultati migliori. Il rischio implicito, che molti osservatori stanno già discutendo, è l’introduzione futura di livelli ancora più costosi, un ciclo continuo di upgrade che premia chi ha le tasche più profonde.

Questa strategia evidenzia una dinamica interessante: la potenza di calcolo diventa un bene scarsissimo, quasi un metallo prezioso. Gli sviluppatori e le aziende che vogliono spingere l’IA ai limiti saranno costretti a investire somme sempre maggiori, trasformando l’accesso all’innovazione in un campo di gioco a più velocità. Non si tratta solo di capacità tecnica, ma di barriere economiche che definiscono chi può davvero sperimentare e chi resta spettatore.

Il contesto competitivo rende il quadro ancora più intrigante. Altri attori nel settore IA, da Google DeepMind a Anthropic, stanno percorrendo strade simili: ottimizzazione estrema delle risorse computazionali e modelli a pagamento per segmenti selezionati. OpenAI, con questa mossa, non fa che formalizzare un principio già presente nell’ecosistema: chi vuole i modelli più avanzati deve contribuire al costo reale dell’innovazione. Altman, come spesso accade, riesce a confezionare questa logica economica in un linguaggio quasi etico, parlando di “idee nuove e interessanti” invece di costi proibitivi.

Un dettaglio curioso emerge dalle parole di Altman: la volontà di testare cosa è possibile fare con grandi quantità di calcolo. È un invito implicito alla sperimentazione estrema, riservata a pochi, un laboratorio di frontiera dove le idee più ambiziose possono diventare realtà. Il resto degli utenti continuerà a fruire dei servizi IA in maniera più standard, un po’ come assistere a una dimostrazione scientifica senza partecipare ai laboratori di ricerca avanzata.

La strategia di OpenAI ha quindi un doppio volto: da un lato promette democratizzazione futura e riduzione dei costi, dall’altro istituisce una gerarchia immediata basata sulla capacità di pagamento. Non è un caso che Altman non abbia fornito dettagli sui nuovi prodotti: la curiosità è parte del meccanismo di marketing, creando attesa e percezione di esclusività. Chi segue il mercato sa che questo tipo di strategia crea inevitabilmente un ciclo di domanda crescente per livelli superiori, rafforzando la posizione dell’azienda nella corsa all’IA.

In termini pratici, per le aziende e i professionisti significa pianificare in anticipo. Le applicazioni più ambiziose dell’IA, quelle che richiedono modelli ad alta intensità di calcolo, saranno accessibili solo a chi può sostenere costi elevati. Questo cambia la dinamica dell’adozione: non più una corsa alla disponibilità immediata, ma una selezione basata su risorse e capacità strategica di investimento. Chi non si adegua rischia di rimanere fuori dai progetti più innovativi, trasformando l’accesso all’IA in un fattore competitivo reale.

La mossa di OpenAI non è semplicemente tecnica, ma profondamente economica e culturale: ridefinisce il concetto di accesso all’intelligenza artificiale, mettendo al centro la capacità di investimento. L’ironia sta nel fatto che Altman riesce a presentare questa scelta come una sperimentazione creativa, mentre il mercato la percepisce chiaramente come un’operazione di selezione naturale a pagamento. Chi ha capito questo dettaglio ha un vantaggio strategico non da poco in un settore dove la potenza di calcolo e la disponibilità dei modelli determinano chi guida l’innovazione e chi resta spettatore.